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Sublime, si stampi

18/07/2002

Ma il sublime è di destra o di sinistra? Nel quarantennale di Adelphi, mentre la casa editrice guidata da Roberto Calasso segnala la ricorrenza con "Adelphiana", numero 1 di una «pubblicazione permanente», fatta di «inattualità, reale e immaginario» (Cesare Garboli), la domanda sembra fatta apposta per ridurre l’identità di un’intera esperienza culturale, filosofica, letteraria, scientifica alla grossolanità di uno schema condizionato dalla cronaca: sarebbe come portare la profondità dello spirito nel chiacchiericcio del politichese. Peggio: sarebbe come chiedersi come si colloca sull’"asse" progresso/conservazione tutta una letteratura e una visione del mondo che ambisce a essere eterna, o almeno atemporale. Una volta Calasso dichiarò che la Einaudi aveva fallito il suo compito perché aveva ceduto alla pedagogia politica, pretendendo di farsi coscienza nazionale. Mentre un’editrice plasmata dall’opus di Nietzsche (curato dalle passioni filologiche e dal puntiglio ecdòtico di Giorgio Colli e Mazzino Montinari) può contemplare la realtà solo attraverso la mediazione dell’assoluto, della vertigine, dello stupore, della contemplazione, del testo. Antropologie estreme, eresie radicali. Eppure, il fondatore di Adelphi, Luciano Foà, era stato iscritto al Pci dal 1948 al 1957 («Non perché fossi marxista, ma perché, come molti allora, vagheggiavo una società rinnovata»), trovandosi accanto l’attivista Giangiacomo Feltrinelli, e il suo ambiente comprendeva tutto il côté di Giulio Einaudi (Bobbio, Ponchiroli, Boringhieri, Lucentini, Calvino, Pavese) oltre che la frangia degli olivettiani. Piuttosto, la prospettiva "inattuale" proveniva dall’ispiratore eccentrico e semisegreto della casa editrice, il triestino Bobi Bazlen, con le sue propensioni verso letterature, umanesimi e antiumanesimi di confine. Ma se si prende l’insieme del catalogo Adelphi, "un libro fatto di libri", è difficile sfuggire in primo luogo alla sensazione che Calasso e la sua compagine editoriale abbiano formato, se non la coscienza, il gusto degli italiani colti, dettando tendenze ed evocando suggestioni, dalla Mitteleuropa di Arthur Schnitzler e Joseph Roth ai romanzi di Milan Kundera e Mordecai Richler, sempre in un clima di allusione intellettuale per cui spetta implicitamente al lettore accettare il dogma o il sofisma culturale suggerito, per non passare fra gli esclusi (e non conta nulla, essendo puro epifenomeno mediatico, che due dei massimi successi letterari di Adelphi, per l’appunto "l’insostenibile" Kundera e la "Versione" di Richler, siano stati sostenuti da due viziosi del trash come Roberto D’Agostino e Giuliano Ferrara). E subito dopo non si scappa neppure all’idea che il gusto supremo di Calasso non si sia espresso soltanto nella selezione della narrativa, ma in modo perfino più insidioso nell’individuazione di modalità sociologiche "altre". Ad esempio con il tentativo, fallito per irrimediabile impermeabilità del mercato, di designare l’"Homo hierarchicus" di Louis Dumont come opera-paradigma, in grado di interpretare l’India castale come le società postindustriali. Oppure con la presentazione dell’opera di Douglas R. Hofstadter ("Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante") in modo da illustrare l’intelligenza artificiale come un divertissement intellettuale, una variazione anamorfica della scienza. E ancora presentando "Il grande massacro dei gatti", l’opera di Robert Darnton su quel Settecento che precede la Rivoluzione francese, come una lettura di gusto, una storia fatta di "stories", lasciando deliberatamente sullo sfondo la questione di un metodo che incrocia la ricostruzione delle mentalità con l’antropologia di Clifford Geertz. L’accademia seguirà. È in queste volute sfasature che si manifesta lo smisurato talento adelphiano per la contaminazione: nella capacità di accostare al determinismo etologico di Konrad Lorenz gli slittamenti new age del "Tao della fisica" di Fritjof Capra, al liberalismo storicistico di Benedetto Croce la mitografia di Giorgio de Santillana o le configurazioni psichiche di James Hillman. Punteggiando il tutto con una quantità micidiale di libri "cult", dall’efferato "Siddharta" di Hermann Hesse agli aforismi di Karl Kraus, da Cioran a Colette, da De Quincey fino all’ultimo dei grandi reazionari, il colombiano Nicólas Gómez Dávila. Insomma viene da chiedersi se insieme alle profondità insondate di Massimo Cacciari e alle eccelse superficialità di Alberto Arbasino, e fissando per sempre in un canone letterario adelphiano Nabokov e Sciascia, Bernhard e Márai, non passi un’idea di totale transfert all’impolitico come unica chance intellettuale per i contemporanei, in un mondo di detriti; e che la sola scintilla del sovrumano si possa rintracciare, per via gnostica, nelle "gemme", nelle "schegge", nei "cristalli" che traspaiono prodigiosamente nei testi. Dopo di che, si tratterebbe di capire se questo processo di estetizzazione non abbia condizionato i buoni e volonterosi lettori inducendoli a pensare che le modalità contemporanee dell’agire politico vadano messe in catalogo sotto la sigla delle apocalissi filosofico-letterarie. Se fosse così, verrebbe naturale pensare che qualche generazione cresciuta con il Pirsig di "Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta" come alternativa al manuale di filosofia se la sia voluta di finire con l’idolatria filistea per Chatwin e le vacanze esotiche. Succede, talvolta, di amare la grande cultura per le ragioni sbagliate, scambiandola per bellettristica. E succedeva a molti di fraintendere che la cultura, anche quella di uno straordinario editore come Adelphi, fosse naturaliter "di sinistra": mentre loro, Calasso e gli altri, pensavano semplicemente che fosse sopra, o aldilà, o indicibilmente da un’altra parte.

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