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Sulla zattera dei sinistrati

01/06/2000

Con una miscela di fascinazione e di sgomento, dopo la catastrofe referendaria i Ds assistono al trionfo di Silvio Berlusconi. Il sentimento dominante lo esprime bene il filosofo Biagio De Giovanni: «Il centro-destra, a modo suo, trasmette qualcosa di consistente alle passioni, al senso comune, agli interessi dell’Italia: altro che partito di plastica». E Michele Salvati, intellettuale dell’ala riformista, commentando il populismo folgorante del Cavaliere: «Non si può confessarlo in pubblico, ma i più spregiudicati fra i diessini, quelli abituati a valutare la politica con il realismo dei vecchi maestri, sono affascinati dall’abilità politica del Cavaliere. Perché non sbaglia una mossa, perché punta sul suo obiettivo e lo persegue senza scarti, ignorando anche gli inciampi con gli alleati». Difatti è cronaca: elezioni europee, elezioni regionali, referendum. E in mezzo l’accordo con Umberto Bossi, vale a dire la virtuale desertificazione del Nord. Prima ha abbattuto D’Alema; poi ha schiantato Veltroni. La scoperta di questo Berlusconi "totus politicus" è una delle sorprese sconvolgenti per l’establishment della sinistra. Mentre la leadership Ds si attardava a ripensare le regole, il Nemico conduceva la sua campagna distruttrice, indifferente alle contraddizioni interne al Polo, concentrato solo sul risultato. Per gli eredi della realpolitik togliattiana è uno smacco. Soprattutto per gli oppositori storici dell’uninominale, come Giuseppe Chiarante, fautore in tempi non sospetti del modello tedesco, che adesso si sono visti scavalcati da Berlusconi. I vecchi del Pci come Pietro Ingrao hanno messo sale nella piaga: «Questi referendum non mi piacevano, non ero d’accordo con le proposte che contenevano e non sono andato a votare». Dal suo fortino rifondazionista, salvatosi brillantemente dall’abrogazione, Fausto Bertinotti assesta i suoi colpi con una vena di sadismo: «Alle prossime elezioni i Ds rischiano l’implosione». La sinistra del partito ha rialzato la testa, per segnalare che il partito, come sintetizza Ersilia Salvato, «non ha più il polso della situazione». Il primo a parlare senza eufemismi era stato, dopo il tracollo delle regionali, Piero Fassino, sottolineando che il centro-sinistra aveva smarrito il contatto con l’elettorato del Nord. Ma oggi lo stato della coalizione sembra il male minore: il problema è nel partito. Secondo Piero Ignazi, il politologo che nel 1992, con il saggio "Dal Pci al Pds", aveva monitorato il faticoso passaggio al postcomunismo, i Ds scontano un ricambio generazionale profondo, che li ha privati della compattezza interna e dei canali tradizionali con la società. Regge, anche se faticosamente, il "partito emiliano", che sui referendum ha fatto assemblee, volantinaggi, riunioni con le associazioni di categoria, senza andare tuttavia oltre un quorum stentato, poco sopra il 50 per cento, a Reggio Emilia e a Modena. Al punto che un diessino solido e tetragono al cupio dissolvi, il vecchio soldato Mauro Zani, tornato da Roma per rimettere in sesto la Bologna progressista terremotata da Guazzaloca, ha aggiunto con la sua ruvida ironia: «I nostri sono disciplinati: votano come dice il partito, quando il partito non sbaglia». I governativi, i "ministeriali" del partito tentano di respingere il riflesso pavloviano della sinistra che si ripiega su se stessa. Cioè la tentazione di correre verso la sconfitta elettorale ora e subito, con il ritorno all’opposizione "sociale" e alle mobilitazioni di massa. «è l’idea di fondo della sinistra del partito», commenta ancora Salvati, «che sotto sotto pensa ancora che il capitalismo è una brutta bestia, e quindi sente il richiamo delle lotte di minoranza. Magari sperando in qualche catastrofe del Dow Jones, che esponga la faccia cattiva del mercato, oppure nell’apparizione di qualche movimento tipo Seattle, che movimenti la situazione italiana». Ma anche se le critiche all’"ipergovernativismo" diessino sono diffuse, cova anche un certo malcontento per come la formazione del governo Amato ha liquidato Luigi Berlinguer e Rosy Bindi, vale a dire gli autori delle due riforme più radicali, su due arene strategiche come scuola e sanità. Altre interpretazioni fanno discendere la crisi diessina dal congresso del Lingotto: che era riuscito a imperniare il partito intorno al capo della "new ideology" (Veltroni), al capo del governo (D’Alema), e al capo del socialismo (Cofferati), ma aveva lasciato senza soluzione il problema di un’alleanza politica competitiva. Con la perfida complicazione che adesso i principali esponenti della coalizione sono quasi tutti beneficiari della ventata anti-maggioritaria, da Mastella a Castagnetti. E che diventa sempre più incombente l’ombra di Sergio D’Antoni, possibile sdoganatore di un centro a mani libere. In sostanza, mentre i cultori del maggioritario, come Arturo Parisi e i Democratici, vedono svanire i loro disegni, e sono costretti a tentare di riunire qualche frammento dello spezzatino politico centrista, il dilemma principale riguarda l’equilibrio politico del partito. Sergio Cofferati si gode il doppio successo nel referendum sul reintegro («una barbarie», aveva fulminato: ed ecco qua, quorum mancato e plebiscito contro la Confindustria): ma al momento la sponda dentro i Ds per lanciare un programma politico "old labour" sembra ancora troppo modesta. Veltroni ha visto spezzarsi il filo che univa maggioritario e rilancio della coalizione, giungendo a offrire le sue dimissioni dalla segreteria. Commenta Ignazi: «Una sconfitta è una sconfitta, ma ai leader si chiede anche la capacità di resistere. Altrimenti che si fa, a ogni battuta d’arresto si abdica?». E la riapertura veltroniana su legge elettorale e par condicio? «Un automatismo che rischia di sembrare la mossa dello sconfitto in cerca di un appoggio sul terreno avversario». E allora, per cercare di intuire qualcosa sulle prospettive del partito, non resta che scrutare le intenzioni di D’Alema. Che in nome dell’"aut quorum, aut nihil" si era impegnato strenuamente sui referendum. Ma che se ne sta in disparte, a coltivare scenari intellettuali per un futuro dai tempi non ancora accertabili. «I tempi lunghi sono necessari per un partito che deve ritrovare se stesso», sostiene Ignazi. «A suo tempo, il successo di Tony Blair e del New Labour è sembrato un Blitzkrieg, ma in realtà l’elaborazione culturale e programmatica per il rilancio del partito era stata avviata già nel 1985, da Neil Kinnock. D’Alema, oltretutto, ha bisogno di tempo perché deve metabolizzare l’impressione di essere stato inferiore alle aspettative come premier, e la fragilità dimostrata dopo le elezioni regionali». Ma nel frattempo? Per Salvati il partito è diviso e incerto: «Ci sono due schieramenti che si guardano in cagnesco, la sinistra e i modernizzanti. E in mezzo il gruppo di D’Alema, poco amato perché il suo riformismo pragmatico veniva sentito come un esercizio cinico. Così, se non prevale un orientamento, tutti penseranno a prepararsi alla lunga traversata». Perché il più modernizzante di tutti è il Cavaliere. Arrivederci al dopo-Berlusconi, insomma.

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