Spifferi gelati, nel caldo maggio tori-nese, musi lunghi e sguardi obliqui nei corridoi dell’università, e poi iniziative catacombali per ritrovare il filo di una chance politica dopo il crollo di Livia Turco alle regionali. Ma soprattutto, dovunque si vada, chiunque si veda, c’è la sensazione che qualcosa si stia incrinando, nella vecchia capitale subalpina: una rete di convenzioni, una trama di solidarietà, il compromesso fra borghesia e classe operaia sigillato moralmente dalla cultura azionista. Il saggio di Angelo d’Orsi "La cultura a Torino tra le due guerre" è arrivato nella comunità accademica torinese come una sassata. D’Orsi era già considerato l’enfant terrible dell’università: ex direttore di "Nuvole", rivista della sinistra indignata, alle spalle una storia di amicizie e di rotture con i gobettiani di estrema sinistra, Marco Revelli e Giovanni De Luna. Vent’anni di ricerca, una mole documentaria impressionante, tre-anni-tre di attesa da Einaudi; e all’uscita, con l’anticipazione sulla "Stampa" una polemica bruciante, attizzata dal "Foglio" di Giuliano Ferrara contro il canone dell’antifascismo etico: cioè il "criterio metafisico" impersonato da quella che Ezio Mauro, quando dirigeva il giornale degli Agnelli, chiamava «la costituente torinese», numi tutelari Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone. Prima di criticarlo puntigliosamente sulla prima pagina della "Stampa", Bobbio in una telefonata a d’Orsi si è lamentato perché nel libro «mancano le idee». E dopo avere concesso «il mio giudizio nettamente positivo su questa sua opera di scrupolosa e rigorosa documentazione», Bobbio è passato alle vie brevi: «Angelo d’Orsi commette l’errore di confondere il comportamento pratico, spesso biasimevole, della maggioranza degli intellettuali, con le opere che nonostante il distintivo all’occhiello scrivevano negli stessi anni». Confusione imperdonabile, conclude il maestro. Ma non c’è un sentore di ipocrisia in questo galateo della distinzione tra vita e opere? Non c’è un riflesso agiografico? «Sta di fatto che in questa città verticalizzata, separata, divisa», commenta Bruno Manghi, ex cislino, in seguito uno dei cervelli free lance del gruppo prodiano ai tempi dell’Ulivo, «si sente in giro la voglia di fare i conti con un’élite di "democratici eccellenti", che alla fine sembrano incarnare lo spirito di una comunità castale». «È soprattutto la crisi di una generazione, con i prevedibili problemi di ricambio», dice Domenico Siniscalco, economista, membro del consiglio d’amministrazione Telecom, editorialista del "Sole 24 ore": «Ma è anche l’indizio di una Torino chiusa, dove nessuno è profeta in patria se non le autorità canonizzate, fatta di cittadelle separate, incomunicabili, che non sa offrire opportunità alle generazioni nuove, alle specializzazioni inedite». Intanto, sembra venire meno un connettivo: anche se, riflette il politologo Gian Enrico Rusconi, la ricchezza culturale torinese ha pochi riscontri nelle città universitarie italiane. Un tris di storici come Valerio Castronovo, Nicola Tranfaglia, Massimo Salvadori, filosofi con la durezza razionalista di Augusto Viano o con la felice eccentricità "post" di Gianni Vattimo, economisti neokeynesiani come Terenzio Cozzi, liberali come Mario Deaglio, una scuola sociologica che ha in galleria Luciano Gallino, Arnaldo Bagnasco, Loredana Sciolla, Franco Garelli; e poi istituti di ricerca come la Fondazione Agnelli, il Centro Einaudi, l’attività del Goethe Institut. «Ma allora», si chiede Rusconi, «se c’è tutta questa ricchezza, se sullo sfondo c’è la presenza e il lavoro delle grandi istituzioni silenziose, come il Cottolengo, che sono la testimonianza di una cultura solidarista storicamente pervasiva, se insomma c’è un potenziale terreno di coltura, perché la comunità culturale non esplode, perché non si accende di slanci, dove sono gli "start up"?». La risposta più fredda potrebbe essere che gli allievi non sono stati all’altezza dei maestri. «L’azionismo», sostiene d’Orsi, «è diventato il codice di riferimento esclusivo perché è l’unica identità che Torino sia riuscita a darsi». Ma era una identità parzialissima. Bobbio, ad esempio, la fabbrica non la vedeva nemmeno. Il mondo di Primo Levi, "La chiave a stella" e l’operaio Faussone gli erano del tutto estranei. Lo stesso accordo tra la Fiat e la General Motors, con lo psicodramma del "put" e del "call", è stato accolto con un senso diffuso di smarrimento. Cioè una perdita di senso che ha attraversato tutta la società, senza distinguo fra destra e sinistra. Silenzio, mutismo. Anche perché mentre Cesare Romiti esternava, Paolo Cantarella tace. Tacciono anche le istituzioni della cultura industriale, come il Politecnico, perché malgrado tutto sono un corpo separato: «La West Point del capitalismo industriale», secondo Giuseppe Berta, storico alla Bocconi, direttore dell’archivio storico della Fiat: «Una scuola dura, pesante, a suo modo efficace, ma divisa dalla città». Difatti il Politecnico è un’isola, gestita con sapienza dal rettore Rodolfo Zich, classe 1939, un tecnico di grandi doti politiche, sempre a caccia di risultati rilevanti: accordi di collaborazione con imprese multisettoriali, commesse di ricerca nelle aree "high-tech", grandi flussi di risorse finanziarie, l’insediamento di gruppi come la Motorola e la Colt. «Siamo una città puntiforme, a macchia di leopardo», sostiene Franco Garelli, sociologo specializzato e sui fenomeni religiosi e sulla questione giovanile: «Anche le iniziative di solidarietà di cui è costellata Torino sono tutte attribuibili a personalità singole». Il Gruppo Abele è don Luigi Ciotti, prete di strada e di establishment; Il Sermig, l’arsenale della pace, fondato nel 1964 per esercitare la fraternità e "tentare di vivere la radicalità del Vangelo", è Ernesto Olivero; fuori Torino la comunità di Bose, con i suoi monaci, è la personalità di Enzo Bianchi. «Esistono anche altre esperienze di interesse cruciale, centri di volontariato internazionale molto attivi come il Cisv, che realizzano progetti per il Terzo mondo e per l’educazione allo sviluppo», aggiunge Garelli. Ma anche la Chiesa va compresa fra le "istituzioni silenziose" a cui accenna Rusconi? Il nuovo vescovo, monsignor Severino Poletto, si è insediato il 5 settembre 1999: filiera sodaniana, 67 anni, esperienze ad Asti e a Casale, mostra uno stile manageriale, e punta molto sulla mobilitazione dell’associazionismo. Ha tenuto a presentarsi come figlio «di un’umile famiglia di agricoltori», altro che aristocrazie cittadine, e ha cominciato a dedicarsi agli oratorî e ai poveri. Da Prarostino, la borgata pinerolese che è il suo buen retiro, Manghi offre un giudizio sfumato sul successore del cardinale Saldarini: «Il vescovo si muove bene, con un pragmatismo intelligente, ma bisogna ricordare che Torino è una città di santi, non di associazioni». Mentre Berta eccepisce che le facce della città sono infinite: «Di quale Torino parliamo? Della capitale italiana dell’esoterismo, con le 115 sette censite da Massimo Introvigne? Del paese provinciale, che cullava il dialetto come cifra di distinzione, e in cui la modestia berseziana dell’"esageroma nen" veniva riscattata dal senso del dovere? Oppure della città postmaterialista ai Murazzi del Po, dove ci sono i locali e i centri sociali più trendy, in cui vanno gli scrittori come Giuseppe Culicchia, e che fanno da sede sperimentale per l’arte post-povera, fumettara, di quelli che un giorno o l’altro finiranno nella collana "Stile libero" di Einaudi?». Magari, aggiunge Siniscalco, si potrebbe guardare con più attenzione a quel po’ di new economy che effettivamente circola, agli "incubator" delle nuove imprese iper-leggere, a esperienze come quella di Vitaminic, fondata con l’aiuto di Elserino Piol da Gianluca Dettori, Adriano Marconetto e Franco Gonella, presto diventata la maggiore piattaforma musicale online del mondo, prossima alla quotazione in borsa. Oppure, come segnala di nuovo Manghi, si è chiusa da un pezzo l’epoca in cui gli operai avevano "fatto" il Pci, trasformatosi da un pezzo nel partito degli intellettuali e dei quadri. Approfondisce Berta: «Certo, quando l’avvocato Agnelli sentiva parlare di cultura, il suo sguardo scattava immediatamente a sinistra, come per un riflesso condizionato. Come ha scritto nei primi anni Ottanta Giuseppe Bonazzi, un sociologo attentissimo alle vicende Fiat, nella lotta di classe c’era un "meta-regolatore", il Partito comunista. La Fiat aveva un interlocutore stabile che non era necessariamente il sindacato: quando Cesare Romiti, Carlo Callieri, Cesare Annibaldi, dovevano gestire le crisi sindacali, sapevano che dall’altra parte c’era, inconfondibile, il compagno Piero Fassino, "responsabile fabbriche del Pci". C’era il Leviatano comunista, che così come poteva scatenare il conflitto era anche in grado di sedarlo». Oggi È diverso. Quando allude alla situazione torinese, d’Orsi parla di estrema «pochezza» della classe politica. Manghi scuote la testa: «Abbiamo alle spalle cent’anni di denatalità, un problema tamponato con l’immigrazione nei primi anni ’60, che però adesso è tornato a un punto critico. La società torinese è anziana e attraversata da molte paure. Ci sono più di 125 mila persone sopra i settant’anni, su 900 mila abitanti. Dunque non serve a nulla lo "sviluppismo", la promessa delle grandi opere. Qui si dà valore alle strade pulite, all’ordine pubblico». La diagnosi rispecchia ciò che scrisse Luciano Gallino nel 1990, con una vena fra il sociologico d’antan e il positivista macabro: «Da un decennio esatto detto sistema emette morti in quantità assai superiore all’immissione di nati vivi…». Il 26 giugno alcuni di questi intellettuali e politici torinesi si troveranno insieme nella saletta di un hotel del centro. Tema dei congiurati: come liberare Torino e il Piemonte da una competizione politica atrofizzata, fondata sullo scontro di ideologie impoverite. L’idea di fondo è che è inutile vincere le elezioni se poi non si riesce a governare. Quindi, in vista della fine del mandato di Valentino Castellani, nel 2001, gente come Manghi, Berta, Garelli, il Saverio Vertone rientrato nell’orbita Ds, il costituzionalista Franco Pizzetti, e altri fra cui il deputato diessino- liberal Sergio Chiamparino, provano a rimescolare le carte. Forse con l’ipotesi di una lista civica: una specie di "monopolarismo" che escluderebbe solo le estreme. Sarebbe il contrario esatto del principio azionista, nessun nemico a sinistra e nessun amico a destra. «È vero», replica Manghi, «ma la realtà dice che a Torino il centro-destra vince nei quartieri popolari, mentre il centro-sinistra è maggioranza solo nei quartieri della borghesia comme-il-faut». Resterebbe da identificare un candidato sindaco: Rinaldo Bertolino, l’attuale rettore di Palazzo Nuovo? Molto abile, bravo navigatore, non adatto a generare entusiasmi di massa. Rodolfo Zich, il rettore del Politecnico? Grandissimo imprenditore di cultura, conosciuto però più all’estero che a Torino, sarebbe il candidato ideale. Anche per evitare nomi da establishment come quello di Evelina Cristillin, la patrona delle Olimpiadi invernali 2006, moglie del capo dell’Ifil Gabriele Galateri di Genola, simpatie diessine. Invece, ammicca Giuseppe Berta, ci vorrebbe uno scatto di fantasia… Vattimo? Chissà, ma è troppo per conto suo, anche se ha avuto un ruolo importante in quell’operazione prettamente universitaria che fu l’invenzione politica di Castellani, nel 1993. Eccola qui, invece, la possibile candidatura choc: quella del presidente dell’Ascom, Giuseppe De Maria. Un immigrato calabrese: «Finalmente uno che non ha studiato al liceo D’Azeglio», uno che aveva il chiosco dei fiori al cimitero. Uno degli "homines novi": però decente, dicono tutti, affidabile, che non è andato alla guerra contro Castellani. Un colpo di vita e di vitalità. Anche se questa guazzalocata progettata a sinistra rappresenterebbe la radicale negazione dell’aristocrazia socio-culturale cittadina. L’azionismo e il pensiero unico borghese forse lo colpirebbe più De Maria, dal basso, che non altri saggi di Angelo d’Orsi, o altri documenti che saltassero fuori sulle compromissioni dei maestri. Un uomo in carne e ossa: e non le silhouette elegantemente morali che finora hanno scritto e interpretato il decalogo politico e civile della Torino progressista.
08/06/2000