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Tre uomini un voto

17/06/2004

Brividi nell’Ulivo. Timore di avere perso il patrimonio nell’ultimo giro di roulette. Nelle ore che mancano al 12-13 giugno si sprecano le analisi per cercare di capire se la liberazione degli ostaggi Stefio, Agliana e Cupertino costituirà per il centrosinistra una specie di caso Zapatero alla rovescia. Il rimbombo mediatico è stato fortissimo ed è avvenuto nei giorni cruciali della campagna elettorale. Proprio per questo, conviene prendere in esame con freddezza le possibili conseguenze politiche di un caso che è la sintesi di una politica estera tutta giocata in chiave domestica. A prendere le distanze dal pur naturale picco di emotività determinato dal felice esito del blitz, si dovrebbe mettere a registro che la vicenda dei quattro italiani sequestrati è un episodio dentro il disastro iracheno, che per gli italiani aveva già comportato le 19 vittime di Nassiriya e la morte del lagunare Matteo Vanzan, oltre a un impegno sul campo che aveva trasformato una presenza di "peace-keeping" in una missione di guerra. È su questo sfondo che vanno rilevati alcuni aspetti. Punto primo, che riguarda la destra: il governo Berlusconi si è appropriato con entusiasmo della liberazione degli ostaggi rivendicando un ruolo di fermezza strategica, e mettendo così da parte alcuni precedenti imbarazzanti e difficilmente dimenticabili come la prestazione del ministro Franco Frattini a "Porta a Porta" nelle ore dell’assassinio di Fabrizio Quattrocchi e i festeggiamenti milanisti del premier in coincidenza con la morte del caporale Vanzan. Ma il protagonismo governativo non dovrebbe far dimenticare che la presenza italiana in Iraq è il frutto di una scelta avventurosa, condotta sulla scia di un legame velleitario con la politica dell’apparato "neo-con" della Casa Bianca. Punto secondo, che invece dovrebbe portare a un serio riesame il centrosinistra: le mozioni possono fare male a chi le vota. Quella per il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq è stata un’iniziativa molto appariscente, visto che ha unito tutto il centrosinistra. Poteva contare su un larghissimo atteggiamento contrario alla guerra da parte dell’opinione pubblica e coagulava l’intero fronte politico che si era opposto all’intervento e alle acrobazie "non belligeranti" con cui Berlusconi aveva fatto l’americano restando molto italiano. Ma alla fine il sospetto di un boomerang è fortissimo. Perché per uno di quegli incidenti che accadono talvolta in politica, la mozione è stata discussa in Parlamento mentre la situazione era già mossa. La rigidità della posizione assunta è stata fatta grippare dal mutare del quadro diplomatico, dalla svolta in atto. La stessa manifestazione pacifista svoltasi a Roma il 4 giugno contro la visita di George W. Bush, aveva messo in luce che nonostante la mozione unitaria persiste un’incompatibilità di fondo fra il nucleo duro del centrosinistra e l’area esterna al listone. L’assenza del Triciclo all’iniziativa romana costituiva la dimostrazione della distanza rispetto alle forme di protesta della sinistra oltranzista. Inoltre il sollievo per l’esito morbido della manifestazione non nascondeva l’evidenza che le sinistre sono ancora divise, e che i movimenti rappresentano una realtà irriducibile alle logiche di una coalizione che si candida come forza governativa. In questo quadro la bomba carta esplosa a Bologna l’8 giugno durante un comizio di Gianfranco Fini è un segnale distorsivo e manipolabile. Non esiste nessuna contiguità fra i pacifisti e gli eventuali anarco-insurrezionalisti. Ma i movimenti costituiscono una realtà fortemente espressiva quanto numericamente limitata. Il continuo disagio che si manifesta nel centrosinistra fra una prospettiva di governo e il richiamo della protesta è il sintomo di un problema ancora irrisolto e di scelte che non sono ancora state compiute con nettezza. Certo poteva apparire poco credibile che l’amministrazione Bush passasse dalla dottrina della guerra infinita al riconoscimento del ruolo dell’Onu e all’affannoso tentativo di insediare un governo autoctono in Iraq, e che il capo del governo italiano realizzasse una delle sue numerose giravolte sul tema. Ed è senso comune che le ragioni dell’intervento militare fossero pretestuose, basate su prove rivelatesi false, concepite all’interno di una teoria generale della guerra al terrorismo tale da garantire al mondo decenni di conflitti. In sostanza è vero che la frittata l’hanno fatta gli americani, e il nostro governo si è infilato in un’avventura improbabile, per la quale l’Italia ha pagato prezzi molto elevati. La scoperta delle torture e delle umiliazioni inflitte ai prigionieri iracheni ha infiammato il clima e ha messo in campo una questione etica e di civiltà. Ma è stato efficiente dal punto di vista politico forzare la mano mentre si delineava un cambio di sequenza? Si può continuare a essere ragionevolmente scettici sull’evoluzione reale delle vicende irachene e sulla restituzione di sovranità, ma resta il fatto che la virata è stata tanto spettacolare quanto sottovalutata a sinistra per giorni. È vero che riesce incongruo attribuire a chi ha fatto il danno, o a chi vi ha contribuito, la patente salvifica di autore del rimedio. Ma anziché incassare con soddisfazione la svolta onusiana ed "europea", il centrosinistra si ritrova ora a inseguire, come ha cominciato a fare Francesco Rutelli, una linea appropriata a una forza di governo. Il che apre nuove fratture al suo interno e lascia Berlusconi padrone di gestirsi pubblicamente il ruolo di mosca cocchiera del cambio di marcia. Soprattutto, concede al premier l’immagine di chi gioca al tavolo principale, mentre i comprimari dell’opposizione boccheggiano fuori dalle stanze giuste. Conta fino a un certo punto che il premier italiano sia stato killerato da Jacques Chirac, con il mancato invito alle celebrazioni per l’anniversario del D-Day (una delle più teatrali rappresaglie francesi contro l’"italien" Berlusconi); e che la trattativa sulla nuova risoluzione dell’Onu sia stata condotta largamente dalla diplomazia francese, nel nuovo clima di appeasement con gli americani. Ciò che importa è che il centrosinistra si è trovato all’improvviso in una condizione sfasata rispetto allo sviluppo degli avvenimenti. Il ferreo controllo sull’informazione televisiva ha consentito a Berlusconi di presentarsi come il coautore della svolta, quasi l’ispiratore della nuova geopolitica bushista. Già qualche tempo prima della liberazione degli ostaggi italiani, i sondaggisti avevano rilevato un’increspatura delle preferenze elettorali più favorevole (o meno sfavorevole) a Forza Italia. Ciò che resta da valutare è se la cifra mediatica dettata da Berlusconi riuscirà a mettere in secondo piano il giudizio dell’opinione pubblica sul governo Berlusconi. Ovvero se l’alone di statista che i telegiornali hanno cucito addosso al capo di Forza Italia influirà significativamente sul voto alle europee e alle amministrative. Sembra certo invece che se il centrosinistra ha tentato la spallata, cercando di coagulare tutto il fronte del rifiuto della guerra, l’operazione è fallita. Sui media controllati dal potere politico si assiste allo show infinito di Berlusconi, uomo di Stato, fine diplomatico, gran tessitore, partner e suggeritore dei grandi. Che si tratti di una recita dovrebbe essere evidente. Ma proprio per questo, ancora una volta, il tema fondamentale resta quello di opporre al centrodestra argomenti politici puntuali: senza scorciatoie, e senza l’illusione che un colpo di teatro possa sostituire una prospettiva politica di alternativa seria e coerente. Per la prima volta in dieci anni sembrava che l’invenzione del listone, insieme con la delusione generale per le politiche di governo, potesse preludere alla messa in mobilità di fasce elettorali anche nel campo avverso. Gli errori del centrosinistra rischiano di consegnarci un dopo-europee con un bipolarismo ancora più bloccato. Il confronto si polarizza di nuovo, diventa ancora più radicale. E quando il gioco si fa duro, Berlusconi ha risorse infinite da usare contro i comunisti, gli estremisti, gli inadatti a governare.

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