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Trecento giorni da doroteo

21/04/2005

Si erano incrociati facendo anticamera in un ministero. Tempi della profonda prima Repubblica. Silvio Berlusconi si era profuso in un peana per i capi dorotei, per la saggezza con cui amministravano il potere, per il realismo con cui concepivano la politica. Marco Follini, detto allora "il giovane Follini", si era schermito: «Purtroppo, dottore, non ci sono più i dorotei di una volta». Ormai Mariano Rumor, Flaminio Piccoli, Toni Bisaglia appartenevano in effetti al passato della Balena bianca. Ma con uno scatto più che atletico Berlusconi balzò in piedi dalla poltrona in cui era sprofondato, indusse il futuro capo dell’Udc ad alzarsi per imitazione e lo abbracciò mostrando una commozione così sfacciata da sembrare vera: «Ma c’è lei, Follini!». Sono passati alcune epoche politiche, ma l’eco di quella lontana conversazione grava sulla politica italiana. Perché dopo il knock down delle elezioni regionali, Berlusconi non ha molte scelte strategiche davanti a sé. Certo, c’è sempre la "exit strategy" suggeritagli dal realismo nichilista di Giuliano Ferrara, giocarsi la partita delle elezioni politiche nella serena accettazione della probabilità di perderle, e nel frattempo preparare razionalmente la successione. Tuttavia questo implicherebbe una qualità politica, e anche ideologica, che Berlusconi non ha mai mostrato. Il Cavaliere è pragmatismo puro. Intuisce che ripresentare il programma di governo per gli ultimi 300 giorni in una chiave ancora liberista e devoluzionista significherebbe andare a sbattere. Quindi procede a tentoni dentro una strettoia al cui termine ci sono alternative diaboliche. Se sposa fino in fondo l’ideologia supply- sider, il taglio delle tasse, la polemica antistatale, cioè l’Ur-Berlusconi, il "subgoverno" An-Udc si mette di traverso. Se invece si sgancia dal programma dell’Asse del Nord, per mitigare l’insofferenza centromeridionale rispetto alla devolution, Umberto Bossi e tutta la Lega minacciano l’Armageddon. In queste condizioni un uomo bramoso di consenso come Berlusconi può anche avvertire un intimo senso di frustrazione. Sono i supplizi della politica. Inutilmente il Cavaliere ha provato a spiegare agli alleati che nel 2006 si può vincere con operazioncine di "politique politicienne" come il recupero di Marco Pannella e Alessandra Mussolini. Mentre i centristi sentono il gradevolissimo odore di emancipazione dal partito-azienda, i leghisti fanno la faccia feroce come sempre, forti del discreto successo alle regionali. Precipitato in poche ore da deus ex machina a problema politico, Berlusconi può intravedere un barlume in fondo al tunnel soltanto con il troncare e sopire di manzoniana e dorotea memoria. Un contentino alla Lega, almeno a parole, una revisione al ribasso del Contratto con gli italiani, un programma dei 300 giorni all’antica, di stampo moderato e democristiano: famiglia, impresa, Mezzogiorno. Trecento giorni di un Cavaliere forlanizzato. Rassicurante, dimesso, quasi pentito anche se il pentimento non è fra le sue propensioni innate. E sempre con il retropensiero, purtroppo per lui, che a fare i dorotei sono più bravi quegli altri, quelli che sono stati battezzati a Santa Dorotea. Sicché quella vecchia esclamazione, «ma c’è lei, Follini!», potrebbe anche diventare l’epitaffio paradossale sulla politica del Cavaliere.

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