23/04/2008

Nella serata di lunedì, mentre in televisione apparivano i numeri monumentali conquistati dalla macchina berlusconiana, e cominciava a diventare chiara una vittoria politica vistosa, Silvio Berlusconi abbandonava le vesti del "joker", il fantasista del gesto dell’ombrello e delle boutade sulla bellezza delle donne di destra, e provava a interpretare qualcosa di simile al ruolo dello statista. Il trionfo elettorale consentiva in effetti esercizi di understatement elegantissimi. Secondo i suoi sostenitori, dietro una lunghissima cravatta rosa Gianfranco Fini dissimulava l’euforia, felicissimo comunque di avere azzeccato per la prima volta una decisione politica strategica. Eh già, si capisce: ancora poche ore prima, nei minuti degli exit poll pazzi, si poteva dare ragione ai malevoli che lo avevano accusato di avere svenduto An per uno strapuntino alla Camera. Adesso, invece, aria di contenuta e sobria soddisfazione. Corretta semmai psicologicamente dall’essere stato confinato nel ruolo del comprimario, o del servitor cortese, in seguito all’avanzata impetuosa e "barbarica" della Lega. Tuttavia è vero che l’aria euforizzante della vittoria e la sicurezza sull’entità numerica della rappresentanza al Senato consente di mettere per il momento nel cassetto il sospetto che la grande alleanza di centrodestra sia in realtà un coacervo difficilmente gestibile. Un grande conoscitore della realtà italiana profonda, Giuseppe De Rita, sostiene che alle forze del Pdl e più in particolare alla Lega riesce più agevole contemperare sul piano locale «comunità di interessi» apparentemente in conflitto: «Il caso Malpensa è esemplare. Qualcuno deve contemperare le esigenze dei piloti d’aereo con quelle degli inservienti dell’aeroporto. La Lega ci riesce, il Pd no». Eppure l’eclettismo del centrodestra è acrobatico. Se si tratta di una vittoria «bavarese», come sostiene Stefano Folli, è una Baviera "de noantri". In altri tempi si sarebbe detto che il carrozzone berlusconiano non può, nel lungo periodo, reggere le proprie contraddizioni. Conta poco avere firmato un programma. Riesce difficile capire come possono convivere, al momento delle future scelte di governo, i vecchi liberisti e liberali di Forza Italia e i neoprotezionisti guidati da Giulio Tremonti. Come si potrà liberalizzare l’economia e le professioni avendo davanti l’opposizione di Fini, portatore e rappresentante di un trito pensiero nazionalcorporativo. E ancora: il secessionismo "bavarese" della Lega deve fronteggiare le clientele vecchie e nuove pilotate dall’autonomista Raffaele Lombardo, che da sempre chiede «fiscalità di vantaggio» per la Sicilia. Ma chi vince, almeno nell’immediato, ha sempre ragione. Può esibire sorrisi e coscienza istituzionale. I problemi sono dall’altra parte. Il miracolo possibile di Veltroni è avvenuto, ma purtroppo è avvenuto a rovescio. Verso la mezzanotte del "Black Monday", il numero due del Pd, Dario Franceschini, commentava con una desolazione perplessa: «Mah. È difficile capire che cosa potevamo fare in più per convincere il Paese». In realtà nel Pd, e si capisce, sono tutti sotto choc. Fino alle ultime ore, e fino agli exit poll, era circolata la sensazione di un possibile testa a testa, una conclusione al fotofinish. Non era soltanto un’illusione mediatica, la fiducia nella profezia che si autoavvera, il rilancio su sondaggi sempre in crescita che si poteva tramutare in una rimonta effettiva. Veltroni e gli uomini a lui più vicini ci avevano creduto davvero e trasmettevano sicurezza. Avevano visto le piazze piene del Nord, i teatri stracolmi, la gente entusiasta; e folle immense nel Sud, giovani, mobilitazioni mai viste. E allora? E allora, dice Ilvo Diamanti, risulta ancora più vera la registrazione del 2006 che esistono «due piccole Italie», di formato differente e di ispirazione opposta, ma il cui perimetro per ora non è scalfibile. Anche negli ultimi sondaggi si poteva notare che le appartenenze ai blocchi di sinistra e destra erano «granitiche» (il sondaggista Piepoli dixit). La sconfitta del Partito democratico, se ne deduce, viene da lontano. Secondo i funambolismi culturali di Giulio Tremonti, che affonda il coltello nelle carni del governo uscente, la responsabilità è tutta di Romano Prodi, colpevole di non avere capito i rischi fatali della globalizzazione, e anzi, di essere stato uno dei colpevoli «di una globalizzazione fatta in otto anni anziché in decenni». Al di là delle grandi visioni geopolitiche e geoeconomiche, il tentativo di fare dimenticare le asprezze del governo uscente era difficile. «Veltroni era inseguito dall’ombra lunga di Prodi», dice Giovanni Sartori. Cioè dall’impopolarità determinata dalle scelte del risanamento. «Soprattutto la prima legge finanziaria del governo dell’Unione», ha commentato il direttore del "Sole 24 Ore" Ferruccio de Bortoli, «ha colpito e quindi inimicato ceti, come certi settori del lavoro dipendente qualificato, che si erano schierati per il centrosinistra». Il risanamento, come aveva ricordato il governatore Mario Draghi, era avvenuto tutto dal lato delle entrate. La Confindustria era convinta che la bonifica dei conti non fosse strutturale, ma dipendesse largamente dal ciclo economico. In meno parole: tasse, tasse, tasse. Una redistribuzione sostanzialmente fallita, almeno nella percezione popolare, con la convinzione che alla fine il governo di centrosinistra ha dato i soldi alle imprese, con il taglio del cuneo fiscale, senza riuscire a farli vedere ai lavoratori: «Quando i poveri danno i soldi ai ricchi il diavolo balla», aveva commentato ironicamente un anziano socialista in una lettera ai giornali. E una sostanziale sottovalutazione del costo della vita in aumento, e delle tariffe in crescita. Veltroni ha sempre riconosciuto con lealtà che il lavoro di Prodi, ancorché impopolare, era stato quello di un «uomo di Stato». Ma l’uscita stessa di scena, da parte di Prodi era stata una cerimonia crepuscolare, venata di malinconia. Finiva una fase. Uno dei protagonisti di quindici anni della vita politica italiana se ne andava verso la sua condizione di «nonno». Una certificazione precoce di senilità, mentre il quasi settantaduenne Silvio Berlusconi sfidava anche nell’abbigliamento le convenzioni della politica classica, doppiopetto scuro e chissà cosa sotto («Ahò, me sembra il cantante dei Dik Dik», sarebbe stato il commento confidenziale di "Walter" ai suoi collaboratori). Ma soprattutto il punto di svolta era stato la grande "rupture" di Veltroni, il cambiamento radicale di schema politico. Per quindici anni, Arturo Parisi in veste di ideologo e Romano Prodi come braccio operativo avevano fatto tutto il possibile, e anche qualcosa oltre il possibile, per tenere insieme l’alleanza "larga" del centrosinistra, estesa fino a Rifondazione comunista e a tutta l’area della sinistra alternativa. Con un solo gesto, e dopo avere cercato una muta intesa con l’interlocutore, il non più demonizzato Berlusconi, Veltroni ha azzerato il "format" precedente e ha annunciato lo slogan del "correre da soli". Non era l’inciucio, e nemmeno la premessa del "Veltrusconi": si trattava semplicemente di una iniziativa lucida, ma che puntava su una sola carta: far dimenticare Prodi, trasformare il Pd nel "partito a vocazione maggioritaria" che Veltroni aveva in mente almeno da un anno, reinventare un partito di centrosinistra con l’ambizione di sfondare al centro. Legittimato dal voto delle primarie, il leader del Pd sapeva che si trattava di un azzardo totale. Ed è stato anche sfortunato: il mancato accordo fra Berlusconi e Pier Ferdinando Casini ha ricostituito un filtro interposto al centro del sistema politico, con l’Unione di centro che ha drenato anche elettori cattolici del centrosinistra, preoccupati per il reclutamento della pattuglia radicale, e non più garantiti nemmeno dal «cattolico adulto» Prodi. Ma per tentare in ogni caso lo sfondamento al centro, Veltroni aveva l’obbligo di rivolgersi credibilmente ai ceti sequestrati da Berlusconi e dalla Lega. E qui sono cominciati i guai. Perché il leader del Pd ha condotto una campagna brillante, ma non è riuscito a rivolgere un messaggio consistente e convincente alle imprese, al Nord, agli imprenditori, alle partite Iva, a quella che di solito si definisce la parte più moderna e produttiva della società italiana. Le candidature di Colaninno e Calearo hanno avuto l’aspetto di fioriture effimere, rondini senza primavera. Adesso si capisce che le piazze piene erano un’illusione percettiva. Ma occorre mettere a fuoco le ragioni di questa illusione. Infatti Veltroni è riuscito a trasmettere segnali coerenti sul piano simbolico e dei valori: la laicità, il rispetto delle coppie di fatto, la tolleranza, la cultura, l’apertura; e poi i valori vecchi ma stabilmente al centro della mentalità della sinistra riflessiva, ossia la convivenza civica, la lealtà repubblicana, la fedeltà costituzionale. Tutto questo però è servito soprattutto a mobilitare il consenso dei sostenitori tradizionali, senza scalfire la rocciosità delle forze avverse. «Veltroni ha fatto una buona campagna sui simboli», commenta lo storico Giuseppe Berta, che ha appena pubblicato da Mondadori un libro sul Nord industriale che tutti gli esponenti politici del Pd farebbero bene a leggere con attenzione, «ma si dà il caso che in questo momento fossero in gioco gli interessi». Quindi al Partito democratico è riuscita almeno parzialmente una mobilitazione politica che ancora una volta ha capitalizzato la paura antiberlusconiana; ma non c’è stato un messaggio davvero mobilitante e trasversale sulla modernizzazione del Paese. È mancata quel senso di «modernizzazione bruciante» di cui aveva parlato uno dei padri del Pd, Michele Salvati, e che sarebbe stato necessario per garantirsi il via libera degli establishment. Berlusconi parlava del bollo auto, commenta il direttore di "Quattroruote", Mauro Tedeschini, «mentre Veltroni parlava dei diritti, dei ricercatori, dell’università, dei sentimenti civili; e non ha mai detto una parola sul costo della benzina, tanto per dire». Tutto molto elevato ma sfasato rispetto ai ragionamenti terra terra dell’avversario («Parliamo dei precari», gli chiede Enrico Mentana a "Matrix"; «No, parliamo degli anziani», risponde Berlusconi, mostrando una significativa consapevolezza dei target elettorali e demografici). Tuttavia a questo punto la sconfitta del Pd è una sconfitta multipla, e sono da valutare con attenzione tutte le sue possibili implicazioni. A cominciare dalla più sanguinosa: vale a dire l’amputazione della sinistra alternativa dal sistema politico, con il tragico fallimento della Sinistra Arcobaleno. Un fallimento che ricade largamente sulle spalle di Fausto Bertinotti, già partecipe a suo tempo della liquidazione del Psiup (che non fece il quorum alle elezioni del 1972, e si guadagnò la sigla di "Partito scomparso in un pomeriggio"). Ma il Psiup era un partito del 2 per cento. La sparizione traumatica della Sinistra Arcobaleno significa la mancata rappresentanza di un abbondante 10 per cento dell’elettorato e di un partito importante, ancora dotato di strutture sul territorio, di organizzazione e di militanti impegnati nel lavoro politico e nelle istituzioni locali come Rifondazione comunista. E implica conseguenze ancora non prevedibili per il Pd. In questo momento molti sono propensi a riconoscere a Veltroni un ruolo decisivo nella semplificazione del sistema politico: peccato, aggiungono i critici, che la semplificazione si sia realizzata con l’abrogazione di un pezzo della sinistra. L’abolizione della sinistra critica non era ovviamente nelle intenzioni di Veltroni. Anche perché essa ha una conseguenza immediata. Comporta infatti una riconsiderazione della strategia complessiva del Pd. «Hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato un partito», sogghigna a denti stretti qualche vecchio compagno di Rifondazione. Si pone infatti davanti al Pd una domanda semplice e imbarazzante: ma il Pd è un partito competitivo? Oppure è un’Italia geneticamente di minoranza, a cui è preclusa proprio l’intenzione maggioritaria che si era autoattribuito? «Veltroni ha aperto il vaso di Pandora», dice Salvati. Traduzione: ha avuto coraggio, ma ha scatenato forze che forse a sinistra nessuno è in grado di controllare. «Ma non vorrei che adesso cominciasse la caccia al leader sconfitto, perché non possiamo permetterci una nuova ondata di masochismo». E allora? Nessuno in questo momento se la sente di passare all’attacco. Ma nelle prossime settimane, quando apparirà chiaro il deficit strategico del Pd, privato anche di un raggio di alleanze possibili, occorrerà mettere a fuoco una risposta. Si parlerà di fare un congresso. Ma intanto, dice Gianfranco Brunelli, anima del "Regno" e prezioso tessitore di relazioni politiche nel mondo cattolico, «prima sarà meglio fare un partito, visto che la struttura del Pd è provvisoria». E poi: riconsiderare i rapporti con il mondo cattolico, proiettarsi sulla riforma elettorale, sull’appuntamento del referendum, sulla tappa delle elezioni europee. Qualcuno dice che, come nei migliori remake, adesso Massimo D’Alema presenterà il conto. Qualcun altro già vede una diarchia "garante", con D’Alema e Marini a coprire Veltroni. Forse mai una sconfitta è stata carica di conseguenze potenziali come questa. Probabilmente il Partito democratico comincia domani. n

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