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Tutto è crollato tranne il cattivo gusto

22/05/2003

Di volgarità non si può parlare, dato che gli schemi dell’eleganza imposta dall’alto sono saltati. L’establishment è volgare come il popolo, e il galateo si è ridotto al manuale di sopportazione reciproca fra esponenti dello stesso clan, prima di passare alla caciara del dopocena e al trenino della Mara Venier di turno. Inutile cercare di definire un’Italia coatta, marginale, esclusa per ignoranza delle buone maniere, ignorante dell’estetica: conviene piuttosto identificare quell’aggregato sociale e culturale interclassista che fa sfoggio della sua autenticità. Cioè il Paese autentico, reale, esatto, tautologico, uguale a se stesso nei quartieri di classe come nell’hinterland, negli atelier del lusso come nelle periferie sottoumane. La comunità è crollata, visto che i partiti sono evaporati, le ideologie sono svanite, la cornice etica si è scassata. E quindi, come dicono i sociologi, quando la comunità collassa viene fuori l’identità. Non importa come si è, quanto esserne orgogliosi. Se prima l’essere emarginati era una privazione, adesso è una possibile rivendicazione. Siamo così, senza schermi. Pronti a rubare la fidanzata al magistrato cattivo, come predica il Cavaliere. O a suggerire alla strafiga candidata bresciana Viviana Beccalossi: "Fagliela vedere". Questo è lo stile di palazzo Chigi subito recepito con sghignazzi dal popolo implicitamente forzista. O comunque dotato di sfrontatezza innata come Floriana del "Grande fratello". Animato da un craxismo fiammeggiante come quello dell’Elefantino tornato "Cicciopotamo, socialista islamico". Un popolo ora di iene, ora di corvi, ora di avvoltoi, un po’ Platinette, un po’ Cristiano Malgioglio, con un pizzico di Antonio Socci. Non c’è più un Altrove, un Oltre, un Eventualmente. Il Paese eccolo qua, hic et nunc, e se è un Paese "e’mmerd" va calpestato con tutta la suola, in modo da sollecitare la porca fortuna. Si potrebbe sostituire il vecchio simbolo, lo Stellone, con una materia più bassa, più terrestre (salvo che se poi qualcuno, un Luttazzi o un altro, la mangia, è disfattismo e sabotaggio, se non vilipendio al simbolo). Autentici, dunque. Con il petto depilato, con le tette figurative, con la tinta e il riporto: autentici e autentiche anche con il piercing, il vintage avariato, il muscoletto scolpito, ma anche la ciccia che deborda, chissenefrega. Non è l’acme del kitsch e nemmeno del trash, che sono parametri troppo intellettuali: piuttosto è il ritorno in incognito del vecchio Hegel, ciò che è reale è razionale. Esisto, quindi sono. Così è se mi pare. E alla fine, del tutto disinibiti, possiamo cantare di nuovo il nostro inno nazionale, l’inno del signor Rossi, dei fratelli d’Italia qualunque: «Siamo solo noi».

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