Con una fatica estrema, sfiorando ripetutamente il baratro della dissoluzione, i Ds cercano la via che deve condurli al congresso, a una leadership, a una prospettiva negli anni asprigni dell’opposizione. Le ultime tappe della crisi hanno visto appannarsi l’idea di un’elezione plebiscitaria di Piero Fassino, teleguidata da Massimo D’Alema; a sinistra si è coagulato un gruppone che può esprimere un candidato alternativo, raccogliendo anche le adesioni del dissolto blocco veltroniano. Di per sé, il consolidarsi di una frazione di sinistra ha un solo significato: creare le condizioni per tenere decentemente un rapporto con Fausto Bertinotti. Se invece il gruppone antifassiniano (e antidalemiano) dovesse ottenere un successo eccessivo, potrebbero essere guai. Perché se il peso della sinistra interna aumenta, il partito si convince che la sconfitta del 13 maggio è stata determinata da una perdita di identità, ed essendo l’unica identità residua quella socialista, per vincere in futuro occorre una quota di socialismo in più. Così, l’eventuale ridimensionamento del socialdemocratico D’Alema verrebbe pagato con un tributo ulteriore all’illusione socialdemocratica. Un errore al quadrato, capace di danni logaritmici, perché in questo momento i Ds non possono cullarsi nel tepore delle vecchie idee. Devono affrontare il dilemma che li stiracchia, quello di essere un partito troppo piccolo per guidare una coalizione imponendo il proprio progetto, e nello stesso tempo troppo grande per farsi neutralizzare nell’ulivismo di ritorno. Dilemma bicornuto: di quelli che non si risolvono con le mediazioni. Solo che in questo momento i Ds sono un partito a cui qualsiasi scelta provoca sofferenza, e un taglio netto fa paura: per questo si agitano, senza accorgersi che il problema del partito è una questione minore di fronte alla necessità di tenere in vita e rilanciare la coalizione.
19/07/2001