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Un narciso piccolo piccolo

09/05/2001

«Non c’è nessuno sulla scena europea o mondiale che possa pretendere di confrontarsi con me». (A un incontro con i coordinatori regionali di Forza Italia, 7 marzo 2001) Il narcisismo politico di Silvio Berlusconi è la prova più plateale che la Repubblica è ormai un organismo geneticamente modificato. Ai tempi dei tempi, a nessun democristiano sarebbe mai venuto in mente di autoincensarsi, dato che sarebbe stato sommerso dalle pernacchie del capocorrente a fianco. Palmiro Togliatti diventò il Migliore per un plebiscito del popolo comunista, non in seguito a un accesso di superomismo. La personalità selvaggia di Bettino Craxi aveva bisogno della lotta quotidiana con alleati e avversari, non dello specchio solipsistico. Dunque se oggi il Cavaliere esibisce il suo ego dilatato vuol dire che la politica si è trasmutata in un campionato mondiale, un premio di bellezza, un concorso a premi. Si è ribaltata in antipolitica. La concezione stratosferica di sé, il di-sprezzo per gli avversari («i peggiori», tanto per gradire), la degnazione paternalista per i partner politicanti della coalizione come Casini, Buttiglione e Fini, sono tutti atteggiamenti che si rifanno a una concezione che non lascia spazio alle sostanziali mediocrità della politica. Berlusconi non può fare nulla di normale o di compromissorio. Nel privato ogni sua ora di vita è un’ora di prova con se stesso: il Cavaliere sgambetta nel jogging nel parco, alle Bermuda sfida la sua shakespeariana "band of brothers" nella lettura dei classici, rilegge Meister Eckhart e i mistici medievali per tenere alto il tenore intellettuale. Nella dimensione pubblica si scatena l’homo faber, il costruttore di città e imperi, il progettatore di opere colossali. L’aneddotica raccolta dagli antipatizzanti è infinita e viene superata solo dall’agiografia dei laudatores. Al punto che lascia stupiti l’adorazione stucchevole che hanno nei suoi confronti i capetti politici della Casa delle Libertà: come faranno vecchi democristiani come Beppe Pisanu, quadrati ex fascisti come Gianfranco Fini, onorati filosofi del neoguelfismo come Rocco Buttiglione a spremere l’adorazione dalle proprie viscere? Ma ancora più sbalorditiva sembra l’idolatria di un realista come Giuliano Ferrara: Silvio «è l’autoironia personificata… sa sorridere di se stesso». Sarà. Il punto vero non è stabilire se fra le doti di Berlusconi c’è anche un alto coefficiente di simpatia umana, proclamato da tutti gli intimi e talvolta riconosciuto anche da qualche avversario, bensì se il Cavaliere ha talento quando è investito di responsabilità pubbliche accertabili. Non è una questione minore. Già sul piano del carattere il capo della Casa ha una deprecabile tendenza ad amare le barzellette solo quando ne è l’eroe; mentre non appena ne diventa soggetto passivo si irrita malamente: come sa Massimo D’Alema, che nel collegio di Gallipoli potrebbe pagare cara una battuta da "Settimana enigmistica" («Fra poco lo vedremo con lo scolapasta in testa»), pronunciata per irridere la sua vocazione napoleonica. Ma al di là della simpatia e del suo contrario, l’unica cosa che conta è il profilo dell’uomo di governo, e sotto questa luce il Cavaliere non ha precedenti straordinari. I sette mesi del 1994 sono stati una sagra del lamento: «Ci remano contro», «Non ci lasciano lavorare». Cioè una giustificazione fastidiosa in quanto non richiesta, mentre in realtà l’esecutivo era mediocre quando non bizzarro, e le linee politiche del governo drammaticamente altalenanti fra rigore (sulle pensioni) e lassismo pro svalutazione, per tacere della ideologica e provinciale animosità antieuropea che caratterizzò quell’esperienza. È plausibile allora il sospetto che la vera abilità dell’Uomo di Arcore consista in una reinterpretazione da grande attore del "chiagni e fotti". Anche le recenti vicende che lo hanno visto coinvolto sul versante internazionale appartengono a questo genere narrativo. Le critiche e le domande della stampa straniera sono state attribuite all’«internazionale della calunnia», a una congiura «di sinistra», a manipolazioni gestite da suggeritori italiani. In precedenza, il Cavaliere aveva occupato la scena mediatica («Mi minacciano») con denunce vaghe ma sufficienti per fottere le prime pagine alla convention di Rutelli. Nello stesso tempo, ha già fatto capolino il Berlusconi che prepara gli alibi: dopo avere proposto agli italiani un «contratto», secondo il quale se non riuscirà a realizzare il suo straordinario ma non enunciato programma, e in particolare la creazione di 300 mila posti di lavoro l’anno, fra cinque anni non si ripresenterà alle elezioni, il Migliorissimo davanti alla platea degli industriali romani ha cominciato a fissare condizioni e a sollevare ipotetiche: lui continua infatti a sentirsi un fuoriclasse ma segnala il rischio che gli spezzino le gambe. Rimane convinto di essere un grande centravanti, ma se poi i guastatori della parte avversa praticano i tackle a gamba tesa la colpa dei gol mancati non sarà sua. Quindi può darsi che il problema vero, in caso di vittoria berlusconiana, non sia la sopravvivenza della democrazia, come temono Bobbio, Galante Garrone e Sylos Labini: bensì la noia ricattatoria di un refrain già sentito millanta volte, secondo cui i fallimenti eventuali verrebbero ricondotti alle maligne manovre dei sabotatori. Una visione mitologica della "governance". La politica postmoderna di Berlusconi tende a trattare l’Italia come un’azienda, cioè una struttura in cui la catena di comando deve funzionare senza ostruzioni. Ma le società avanzate sono diverse dall’impresa: gruppi sociali, addensamenti corporativi, interessi categoriali, meccanismi istituzionali, legami sovranazionali non possono essere riconducibili a processi decisionali manovrati creativamente dall’alto. Il migliore del mondo potrebbe trovarsi nuovamente nella condizione di avere straordinarie idee di governo e pochi strumenti per realizzarle. Lo studente esemplare, il figlio modello, il padre adorante, il marito amoroso, l’amante della musica, il grande costruttore, il tycoon televisivo, il supertecnico calcistico, il leader carismatico, l’uomo di governo, insomma le mille facce immortalate dalle immagini da rotocalco di "Una storia italiana" potrebbero presto trovarsi a fare i conti con l’ontologica schizofrenia di Silvio: una personalità da Eroe e una sensibilità da Vittima. Passi per l’eroe; ma la vittima, ce la risparmi il cielo.

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