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Un popolo di eroi, mamme e telegiornali

27/11/2003

Può anche sorprendere l’ondata di commozione che si è alzata in Italia in seguito alla strage di Nassiriya: non tanto perché non sia comprensibile, ma per le modalità insieme antiche e moderne con cui la costernazione per la morte di carabinieri, soldati e civili in Iraq si è manifestata. Mazzi di fiori, lettere, disegni, slogan; una inedita partecipazione popolare ha riempito quasi tutto lo spazio pubblico. Con le note del silenzio fuori ordinanza nei programmi televisivi di intrattenimento, che si sono mischiate alla ritualità patriottica, quasi risorgimentale, all’Altare della Patria. Si è avuta quasi l’impressione che il cordoglio per i 19 morti della spedizione irachena contenesse in sé un esorcismo verso la guerra. La stessa sostituzione della parola "vittime" con l’espressione "eroi" conferiva un significato di intenzionalità al ruolo degli italiani in Iraq, come se la loro presenza su un teatro di guerra, o di guerriglia, costituisse la somma di decisioni individuali, più ancora che l’esito di una scelta politica venuta dall’alto. Il dolore che si è manifestato nei giorni scorsi sembra rappresentare, dunque, il convincimento che i militari della spedizione interpretassero esplicitamente una funzione di "costruttori di pace". Per questo il sentimento diffuso è stato così corale. Perché quelli che vengono chiamati con qualche artificio linguistico "i nostri ragazzi" sono percepiti come i rappresentanti di una buona Italia, impegnata per favorire la rinascita della democrazia e della vita civile in un paese segnato mortalmente dalla dittatura e dalle guerre. Tutto questo è giusto, e non è il caso di sottilizzare scetticamente sui sentimenti che si sono manifestati. In ogni tragedia nazionale l’emozione collettiva entra ormai in cortocircuito con la retorica mediatica. Si è chiamati a partecipare allo spettacolo della commozione, amplificato ora dopo ora dai volti dei conduttori televisivi, dalle immagini dei telegiornali, dalle dichiarazioni dei leader politici, dalle interviste ai congiunti delle vittime. È la nostra civiltà, bene o male, e nessuno se ne può tirare fuori. Ma viene da chiedersi: tutto questo non contribuisce per caso a mettere sullo sfondo la durezza tutta politica di ciò che è avvenuto? Solo una mentalità incline all’utopia può pensare davvero che carabinieri e soldati italiani si trovassero in Iraq al seguito di un’idea pacificatrice e dettata da una vocazione umanitaria. In realtà, la presenza italiana è il frutto di una decisione politica, che si colloca entro una scelta strategica altamente impopolare e in rottura con le tradizionali linee diplomatiche italiane. Che alla fine di un percorso tortuoso il governo di centrodestra abbia poi dovuto chiudere su una posizione di appoggio "non belligerante" all’unilateralismo americano è poco significativo. È più importante registrare le parole che il "Corriere della Sera" ha attribuito a uno sbigottito Silvio Berlusconi, prima del suo breve intervento al Senato, il giorno dopo l’eccidio: «L’Italia è un Paese di mamme e figli». Non smentita, questa espressione significa che risulta difficile contemperare la durezza delle operazioni militari, cioè la brutale realtà dei fatti, con il pacifismo familistico della nazione. Di qui si capisce meglio, allora, il sostanziale ammutolimento del governo dopo le comunicazioni ufficiali del ministro Antonio Martino. La politica estera italiana è stata delegata di fatto al presidente della Repubblica, il quale nel suo viaggio americano ha interpretato una linea multilateralista, tutta centrata sull’impegno e la copertura dell’Onu. Mentre il capo del governo è intervenuto per telefono a "Buona domenica", sostenendo che la missione in Iraq onora tutto il paese. Cercare di capire se oggi c’è un disegno strategico della diplomazia italiana rispetto alla questione irachena assomiglia a un rebus. Si ascoltano proclami che annunciano l’intenzione di "andare avanti", nonostante il trauma subito dall’intera nazione. E nello stesso tempo si prende atto della commozione generale per la morte ingiusta dei nostri connazionali a Nassiriya. Ma la commozione è un sentimento, e la politica è un intreccio di decisioni. Dopo le lacrime, sarebbe il caso di sapere quali scelte ci attendono. Quali orientamenti, quali risoluzioni. Altrimenti, il clima del cordoglio servirebbe solo a occultare l’automatismo di una politica gregaria.

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