Sarebbe uno degli eretici, degli estremisti, dei reazionari, degli inattuali dell’urbanistica italiana. Tutto in una sola persona. Un insidioso rompiscatole che quando parla delle città non trova di meglio che citare Ivan Illich e il problema dell’acqua, e poi il cardo e il decumano, e infine l’allineamento delle stelle che presiedono da lassù all’assetto urbano: eh sì, Pier Luigi Cervellati non è il tipo facile. Ha appena pubblicato un libro sottile e provocatorio, "L’arte di curare la città" (Il Mulino), che completa un trittico avviato con "La città post-industriale" e proseguito con "La città bella": tutti saggi ispirati a una visione in dichiarata controtendenza. Perché gli piace immensamente manifestare tutta la sua antipatia per le auto, i parcheggi, l’alta velocità, le innovazioni che peggiorano il male. Così, quelli che non lo amano lo considerano un antimoderno. In compenso qualcuno lo stima anche fuori dalla sinistra. Lui, l’autore di quel monumento "socialista" che fu il recupero del centro storico di Bologna la Rossa, è stato chiamato a realizzare il piano regolatore di Latina dal sindaco più di destra che ci sia in Italia, Ajmone Finestra. Che gli ha detto: «Professore, so che lei la pensa diversamente da me, ma so anche che non le piacciono gli affari torbidi. E allora sappia che io ho un solo nemico: la speculazione». Ma come può un "utopista" lavorare in un settore così delicato e sensibile a interessi tanto robusti? Nel suo studio bolognese in Strada Maggiore, in parte fondale di teatro e in parte paesaggio dechirichiano, di fronte a uno dei suoi diletti manichini a grandezza d’uomo, Cervellati apre il suo catalogo di malizie: «Non è detto che un’amministrazione di sinistra sia sinonimo di buona amministrazione». Sembra un messaggio rivolto a Giorgio Guazzaloca, l’eversore. «Malgrado la mia fama di idéologue, ho alle spalle il piano regolatore di Palermo e di Catania, città non esattamente facili. Bologna? Forse si è ritrovato il filo tra le parole e le cose, fra la teoria e la pratica. È una politica moderata? Mi sembra piuttosto la premessa di una politica più attenta alle esigenze civiche». Ma è difficile lavorare oggi con le amministrazioni pubbliche? «Non si riesce più a stendere i piani regolatori, perché i sindaci vogliono esercitare direttamente le loro scelte: è scomparso il dibattito, e l’elezione popolare accentua i rischi antidemocratici, il decisionismo personalistico, l’opacità dei rapporti oligarchici». Ma soprattutto, sostiene Cervellati, il problema di fondo è un passaggio di fase brutale. Scrive: «I luoghi sono diventati "non luoghi". Le città sono diventate "agglomerati"». Tradotto da un sociologismo apparentemente apocalittico, si tratta della fine dell’identità urbana: parcheggi, aeroporti, ipermercati, svincoli, autogrill, megadiscoteche riempiono ogni spazio vuoto, creando una periferia senza confini. E fuori dalle città trionfa "Villettopoli", la distesa infinita delle case unifamiliari, la città "a bassa densità", la conurbazione, il paesaggio invaso da una superfetazione babelica. Già, ma di chi è la colpa? «Troppo facile intentare processi ai cattivi maestri. Alle spalle c’è una storia culturale: abbiamo cominciato tardi a leggere Mumford, senza considerare che scriveva negli anni Trenta. Con vent’anni di ritardo, nei Cinquanta, si è pensato che il futuro fosse il suburbio. Bruno Zevi, con la sua capacità organizzativa e mediatica, ha fatto dell’architettura organica di Mumford il paradigma ufficiale. Con il risultato che abbiamo prodotto città pessime, malgrado il lavoro e gli sforzi intellettuali di uomini come Leonardo Benevolo, che resta un grande urbanista, o come Italo Insolera, che ha sempre cercato di integrare l’urbanistica in una cultura, con un forte senso critico verso la modernizzazione». Ma a suo avviso il vero cattivo maestro è stato soprattutto lo "sviluppismo": «Perché il paese è passato direttamente dal premoderno al postmoderno: non ha conosciuto la modernità, ma solo la modernizzazione. E lo sviluppo, espressione di grande indeterminatezza, è stato il cavallo di battaglia di ogni forma di speculazione edilizia. Le università sono ancora succube di questa visione, con le loro facoltà poco qualificate, e i loro troppi architetti, male preparati». Riecco lo studioso rétro, l’imputato di passatismo: «Quelli che mi accusano di arcaismo vogliono strade, spazi di espansione urbana, e per argomentare le loro accuse sostengono che con il recupero produrrei sostanzialmente falsi storici. Mentre bisogna capire che non ci può essere soltanto la spinta a innovare: per progettare una città occorre conoscerne la storia e saper conservare; e il restauro significa prima di tutto restituire la qualità a un luogo». L’idea di fondo è che non si può utilizzare una formula per una città di tre milioni di abitanti così come per una di 300 mila o di 30 mila. Per Cervellati ci vuole un’urbanistica non elitaria, popolare, capace di soluzioni specifiche. Altrimenti il modello è inevitabilmente quello delle grandi opere, il ponte sullo Stretto, gli appalti smisurati. «Fa piacere invece sapere che l’ultimo piano di New York ha bloccato il grattacielismo, e si è concentrato sulla riqualificazione urbana. C’è la globalizzazione? Benissimo. Ma allora occorre capire che nel mercato totale la competizione si può fare solo con la qualità, non con quelle cose che Pasolini chiamava omologazione e Arbasino omogeneizzazione». E allora, per uscire dalle colate di cemento, dal traffico, dalle soluzioni sempre uguali destinate a lasciare problemi sempre insoluti, che cosa si può fare? L’utopia non basta. «All’utopia non voglio rinunciare, perché è un metro di giudizio della realtà. Io sono affezionato all’idea della "città di città". Mi si è confermata visitando New York, Città del Messico, le megalopoli. Occorre decentrare, valorizzare i borghi, mantenere quelle entità urbane che si sono formate storicamente, sapendo che sono cresciute insieme al lavoro degli uomini, ai loro comportamenti, alle loro abitudini. Insisto sulla concezione della città "bella". Dove la bellezza è un’insieme di caratteri che non può essere eliminato o stravolto, pena una perdita collettiva». Mentre parla, Cervellati sfoglia il suo ultimo progetto bolognese: il recupero del gasometro, una struttura industriale degli anni Trenta vicina alla ferrovia. Erano cinque, i gasometri. In uno di essi, Cervellati ha disegnato una sala polifunzionale, una city hall da 1.200 posti. Nel più grande, che cade a pezzi da anni e che sembrava destinato a diventare un garage, ha progettato un museo della città. Alle pareti, su diversi livelli, tre "panorami" con la Bologna medievale, rinascimentale, moderna. E in cima, a 360 gradi, il panorama visibile e reale della città attuale. In un’esercitazione di archeologia industriale, una città ideale. Una città di città. Il passato confrontato con il presente. Forse, la traccia di un’utopia celata ma non cancellata dalla storia.
10/08/2000