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Vi conquisterò con Forza Dc

10/02/2000

Forza Italia È a un bivio. Il Polo, nel suo insieme, anche. Per il sistema politico italiano si può prospettare un rimescolamento complessivo. Tutto dipende dalle scelte che verranno compiute prossimamente da Silvio Berlusconi. Il quale ha aperto una fase movimentista: un passo avanti, uno di lato, un rilancio, un’esitazione. Ma in fondo alla strategia (e alla psicologia) berlusconiana forse non c’è più un’Italia maggioritaria e liberista. C’è la proporzionale e un fantasma centrista, con l’attrazione magnetica di un modello neodemocristiano. Ha davvero un futuro una svolta simile? Sicuramente ha un passato, una storia. Eccola. Al capo del centro-destra l’osso del maggioritario rimase in gola il 21 aprile 1996. Già: perdere non fa piacere a nessuno, e meno che mai a un "addict" del successo come Berlusconi: non poteva piacere né al presidente del Milan pluriscudettato né al trionfatore politico del 1994, cioè all’uomo che dopo le gioie sublimi del campionato, delle coppe e dell’audience aveva scoperto le estasi della "religione del maggioritario". Andò troppo storta, nel 1996. Il Polo si presentò in campagna elettorale convinto di riprendersi a mani basse ciò che gli era stato sottratto per via ribaltonesca, e per qualche tempo quelle aspettative sembrarono solo in attesa della conferma. Romano Prodi, la maschera alla bolognese, il "simpatico ciclista", la controfigura inventata dal togliattismo di D’Alema, non reggeva i faccia a faccia in pubblico e in tv. L’Ulivo appariva come una coalizione tenuta insieme soprattutto dal tentativo di allestire un cln antiberlusconiano: per motivi etici, per problemi estetici, e magari anche perché "questa volta non faremo prigionieri", secondo l’icastico programma di Cesare Previti. Invece, il Polo vinse "alla grande" quasi tutte le battaglie e i sondaggi, e perse la guerra. Riuscì anche a rastrellare più voti, rispetto all’Ulivo, ma venne sconfitto nei collegi: a riprova che le candidature nell’uninominale non dovevano essere così convincenti, e che la sua credibilità come coalizione risultava problematica. Il disamore per la formula maggioritaria cominciò a manifestarsi ben presto. Malgrado la quadruplice etichetta catch all inventata nel 1996 per tenere insieme tutti gli spiriti del centro- destra (Polo per le libertà, il buon governo, la solidarietà, le riforme), Berlusconi cominciava a sentirsi stretto nei vincoli del bipolarismo reale. Perché il bipolarismo ha un aspetto intrinsecamente fastidioso: tende a mettere l’opposizione in un angolo. La costringe a un grigio lavoro di contrasto, a una partita opaca. Il Polo assisteva semi-impotente alla mobilitazione pubblica realizzata da Prodi e Ciampi sull’euro, alla bonifica dei conti pubblici, alla prospettiva di un paese in via d’uscita dalla sindrome emergenziale, e presto in grado di redistribuire quote di benessere. Intollerabile. Per questo il comportamento del centro-destra ha oscillato vistosamente fra atteggiamenti bipartisan (la missione in Albania, la guerra del Kosovo, l’elezione di Ciamp)i, e irrigidimenti aventiniani, quando il governo decideva di procedere a marce forzate (ad esempio sulle leggi finanziarie). Ma il punto critico della questione era esplicitamente politico. Era possibile fare saltare il confine bipolare? Non si poteva spezzare il vincolo della formula maggioritaria? In altre parole, qual era la strada per andare effettivamente oltre la divisione in due blocchi, in modo da riportare nella parrocchia comune dei moderati gli elettori centristi rimasti nel recinto di sinistra? Mentre Gianfranco Fini teneva duro sul rito bipolarista, Berlusconi cominciava a intingere la mano nell’acquasantiera proporzionale. Tanto più che dopo la crisi del governo Prodi nel 1998 era apparso evidente che le capacità di autoconservazione della maggioranza ex ulivista erano più salde del previsto. Lo sbarramento a destra teneva; Francesco Cossiga si era impegnato in un sovrumano disegno politico che in un futuro imprecisato avrebbe portato alla ristrutturazione del sistema politico in chiave europea, ma intanto si alleava con D’Alema, trascinandosi dietro spezzoni del centro-destra. Occorreva quindi un progetto diverso. Con l’intuito che anche i più fieri avversari gli riconoscono, il Cavaliere aveva avvertito una brezzolina revisionista. In fondo, la prima Repubblica aveva già conosciuto un bipartitismo, ancorché imperfetto, quello fondato su Dc e Pci. Svanita la foga "novista", smorzatasi l’onda alzata da Mani pulite, attenuatasi la fede salvifica nel dogma maggioritario, si delineavano le condizioni per il progetto "tutti a casa". I moderati con i moderati, le sinistre con le sinistre. Ecco allora l’idea sparigliatrice. Ci voleva una simil-Dc, una Dc del Duemila. L’adesione al Ppe costituiva un ottimo viatico. Il mancato quorum del referendum antiproporzionale nella primavera 1999 rappresentava un complemento insperato quanto benaugurante. Già nelle azzurre giornate del 1994 Berlusconi digrignava quando lo definivano di destra: "di centro, Forza Italia è di centro". Il capo del Polo era pronto per la sua seconda grande operazione politica dopo l’invenzione di Forza Italia. Una Dc senza preti e sacrestie, una Dc patrimoniale, secolarizzata e pubblicitaria. E non solo: dato che nella prima Repubblica il sistema Dc implicava una costellazione di alleati, occorreva anche ricomporre il mosaico del pentapartito. Un settore cattolico era già in casa, con il Ccd di Pierferdinando Casini, marchio di garanzia post-dc. Una quota di socialisti era presente anch’essa. Sciolto dai suoi gravami giudiziari, il senatore a vita Giulio Andreotti rilasciava dichiarazioni di studiata cura verso Forza Italia. La scomparsa di Craxi, con l’esplosione mediatico-politica del lutto per la morte, la "Repubblica dei partiti", era un richiamo della foresta. E infine anche Giorgio La Malfa si faceva rilasciare dal suo congressino il mandato ad aprire a Berlusconi. La strada verso la nuova Dc è complessa, anche perché lo schema bipolare sarà pure stato annichilito dai comportamenti politici effettuali, ma è stato assimilato dall’elettorato. Quindi Berlusconi sfoggia due facce. Da un lato sorregge l’alleanza di centro-destra, cercando di allargarla. In questo senso, l’accordo con Umberto Bossi per le regionali di aprile sarà pure, come ha scritto Indro Montanelli, "una machiavellatina di borgata", ma da un altro punto di vista è la ricostituzione del "partito dei produttori", è la pacificazione con la provincia settentrionale, è il ceto medio più la televisione. Dall’altro lato, Silvio continua il lavoro in vista della "sua" Dc. Grande freddo verso il nuovo referendum antiproporzionale. Gelo verso i referendum "sociali". Scarsa enfasi sul mercato e le liberalizzazioni. Spot rivolti alle famiglie e ai giovani, segnali alla gerarchia ecclesiastica, sguardi d’intesa verso il cattolico liberale Antonio Fazio. Ci siamo dimenticati che la Dc classica è stata a suo modo un partito pro labour? No, naturalmente. In questo senso, sulla strada della democristianizzazione rimangono due ostacoli: uno robusto, quello dei referendum, e l’altro fastidioso, cioè Gianfranco Fini. Chissà, forse la "vecchia" Forza Italia si sarebbe tuffata a pesce dentro i referendum sul lavoro, esibendo i Tremonti e i Martino, nel nome di un liberismo euforico; mentre la "nuova Dc" non può farsi imbrigliare in una posizione neoconservatrice à la Thatcher o, si parva licet, alla Bonino. Quanto a Fini, malgrado le ripetute dichiarazioni di compat-tezza del Polo, c’è verso di lui una strategia di breve periodo, nella quale An risulta un portatore di voti essenziale, e una di più lungo periodo, in cui la destra è un accessorio. Il capo di An infatti è troppo cocciutamente bipolarista, troppo referendario, troppo schematicamente decisionista (vedi il suo blitz referendario). Così il Cavaliere gli fa pervenire messaggi obliqui, con i risultati di sondaggi sempre più nefasti, sotto il 10 per cento. Nel frattempo, Berlusconi sommerge l’Italia di numeri, con dati che innalzano Forza Italia oltre la soglia del 30 per cento. Ma nella realtà è di fronte a un compito che va al di là degli appuntamenti elettorali contingenti. Dopo essere stato il fragoroso innovatore, si accinge al compito della grande e totale restaurazione. Il partito neodemocristiano, da miraggio che era, si staglia come una profezia capace di autoadempiersi. Si tratta di vedere se il "regime", le sinistre e i loro impauriti alleati di centro avranno voglia di mettersi di traverso e di tenere duro sulla trincea bipolare. O se la sirena centrista, moderata, proporzionalista farà risuonare una canzone irresistibile. E se la paura della sconfitta non consiglierà di ritagliare il potere anziché disputarlo. Perché a quel punto Berlusconi non sarebbe più il "competitor" di D’Alema o di chi per lui, il virtuale capo di un eventuale prossimo governo di centro-destra, bensì il regista supremo, il demiurgo di qualcosa più grande di lui, più grande del bipolarismo, più grande della contrapposizione destra/sinistra: vale a dire il Padre Pio in grado di miracolare, resuscitandone le spoglie sconsacrate, un partito in cui si riflette la forza e la debolezza dell’Italia, il suo eterno centrismo, il suo perenne desiderio di riconoscersi in un partito sistema, in un’estesa, tiepida e benedetta Italian Family.

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