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Vincere all’italiana

28/09/2000

Un po’ si capisce, l’improvviso entusiasmo nazionale per le vittorie italiane in Australia: ormai le pagine sportive sui quotidiani sono una boccata d’aria fresca. Notizie contro dichiarazioni, prestazioni effettive invece di programmi-promessa e sondaggi. A Sydney sembra realizzarsi il vecchio mito di Olimpia, con le gare che prendono il posto della guerra incivile sulle mogli e sui figli, o del dibattito sull’infinita traversata di Sergio D’Antoni. Tracce di familismo amorale permangono, se è vero che fra le medaglie di Massimiliano Rosolino qualcuno infila anche l’orgoglio napoletano del papà Salvatore proprietario di ristoranti, un raider che di australiane ne ha sposate due, e a cui si può attribuire una specie di ratto degli antipodi. O si può ammirare il calabro-novarese Domenico Fioravanti, prima medaglia d’oro italiana nel nuoto olimpico. Roba da inorgoglire Carlo Azeglio Ciampi, e anche il gaudioso ministro Giovanna Melandri: anche se sotto sotto l’ammirazione per l’uomo rana deriva soprattutto dal fatto che il pescatore di trote Fioravanti è uno di noi, che dice «il nuoto è una noia mortale» e che avrebbe cominciato ad allenarsi seriamente solo pochi mesi fa. Insomma, il dogma sarebbe: vincere è bello, ma vincere all’italiana è più bello. Il mio doping sono gli spaghetti, ha detto Fioravanti, e tutti hanno voluto capire che ciò che conta è una canagliata del talento, non l’applicazione ossessiva, non il martirio quotidiano: ci sono voluti 104 anni per salire alla fine sul gradino più alto del podio. E come c’è riuscito, con un metodo feroce? No, con la capacità tattica, con il dono aureo dello stile, con la suprema economicità della naturalezza (d’altronde, il tecnico del nuoto Alberto Castagnetti, silhouette panciuta e maniglioni ai fianchi, come farebbe a predicare sacrifici?). Ah, l’italianità: non si vince quasi mai in modo normale. Ci vuole il dramma, il fachirismo, la fatica disumana, la secchioneria riverita ipocritamente, l’estenuante giro in pullman di Prodi, la conoscenza dei dossier tipica di Amato. Oppure, la nonchalance del genio, la trovata del fancazzista che azzecca l’ultima interrogazione, il colpo al Superenalotto, la fulminea sintesi mediatica di Rutelli. Così, ci si ritrova ipnotizzati dalla televisione, a chiedersi se l’Italia è diventata un paese moderno anche grazie agli spadisti azzurri che rovesciano il risultato all’ultimo assalto (e i francesi che si incazzano) e che cosa significa invece la medaglia d’oro nel judo del napoletano Giuseppe Maddaloni, e quella di bronzo del "fucile di Dio", il ciellino o giù di lì Giovanni Pellielo, che dice «la coscienza del peccato dipende dal livello di santità che ha ciascuno», frase per cui occorrerebbe una glossa di Don Giussani o un referendum di Formigoni. Il piacere di trasformare in epopea l’infinita varietà umana nazionale è irresistibile. Italiano è l’eroismo, italianissima è l’improvvisazione. A guardare senza moralismi, si vede che alla fine non c’è uno schema "nazionale". Vincono i normali, gli estremi, i moderati, gli ossessi, i bravi ragazzi, le canaglie, i calmi, gli esagitati, quelli del Vangelo e quelli della playstation.

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