Primissimi anni Novanta: arrivano i serial che hanno cambiato la televisione e la rappresentazione della realtà americana. Bastava lasciarsi prendere dalla saga familiare e di gruppo di "Beverly Hills 90210" per intuire che quel "teen drama" era più di un buon telefilm, costituiva una rottura di paradigma: già, come nel modello delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn, le soap opera avevano saturato il loro ambiente semantico; il paesaggio archetipico, fisico e umano, di "Twin Peaks" di David Lynch stava sconvolgendo i canoni della narrazione televisiva, descrivendo un’America popolata di freak e imperniata su strutture narrative largamente pervase da un elemento mitico-magico. Sfidata sul suo campo, nei suoi stili e nelle sue modalità di racconto, la fiction tentava strade diverse. "Beverly Hills", un rondò di amori fra adolescenti di una ricca zona residenziale di Los Angeles, esponeva una società in bilico fra conservazione, valori tradizionali, lealtà classiche della società statunitense e innovazione estrema nei comportamenti individuali. Era uno choc, perché in quel lontano telefilm, puntata dopo puntata, venivano tematizzati i problemi centrali della gioventù americana. Droga, sesso, rapporti fra le generazioni, il sistema scolastico, la competizione, il rapporto fra individuo e collettività. Nello stesso tempo, una soap come "Melrose Place", rivolta a un target generazionale di venti-trentenni, provvedeva a mostrare tutti i tic e le idiosincrasie dell’America contemporanea. Il protagonista entrava in casa, e con una scansione inesorabile apriva il frigorifero. Per rappresentare il dogma igienista e il rifiuto dell’oralità tabagista, non si faceva che bere, mangiare, vuotare bidoni di caffè e di gelato. Una bottiglia di superalcolico si associava alla devianza. Puritani in cucina e liberal in camera da letto, gli americani. Può essere allora che sia definitiva la tesi di Aldo Grasso nel suo ultimo libro, dichiaratamente antipopperiano ("Buona maestra", sottotitolo "Perché i telefilm sono diventati più importanti del cinema e dei libri", Mondadori), secondo cui la fiction tv possiede un potere sociologico impressionante, e che l’unica, o almeno la principale, descrizione plausibile degli assetti sociali e degli stili contemporanei vada cercata nelle grandi narrazioni seriali: «Il telefilm si propone come uno specchio ideale nel quale gli autori riflettono la loro stessa immagine, innanzitutto mentale, e attraverso il quale emergono le loro pulsioni nascoste e le derive dell’immaginario». Qualcosa che sembra un frullato di Proust, Musil e Joyce, proiettati in una "imago" post-storica, per «metaforizzare al meglio le molteplici spinte, contrastanti e spesso irrazionali, dei nostri giorni». Sotto questa luce, diverrebbe ragionevole individuare nella saga concentrazionaria e medicale di "E.R" l’equivalenza del principio narrativo adottato da Philip Roth nel suo bestseller "Everyman", storia di un autunno umano dominato dai crolli corporei, da una fisicità che si infrange nella malattia. Vale a dire: la vita è un fluire accidentato che si snoda fra carotidi squarciate e emogas deficitari. Di fronte al Moloch sanitario l’individuo esibisce tutta la sua solitudine disarmata. La competenza chirurgica permette di trattare gli individui come semplici corpi, come in un transfert erotico da laboratorio, o da camera operatoria, sublimando il sadismo e l’aggressività in tecniche di intervento, salvataggi in extremis, rianimazioni furibonde. Ciò relativizza anche la morte. Il medico che deve parlare con i parenti in ansia segnala infatti che l’operazione è stata complicata, gli sforzi sono stati tecnicamente prodigiosi, mentre le ferite o i danni organici erano indicibili: e soltanto dopo una catena di elencazioni cliniche si giunge all’annuncio che il paziente non ce l’ha fatta, insomma è morto. Come se si trattasse di una subordinata incontrollabile, un inconveniente, il segno della debolezza e della fragilità del corpo nonostante la rassicurante qualità medica delle terapie e la forza della chirurgia. Ragion per cui sarebbe di qualche interesse, prima ancora di osservare come noi guardiamo la società attraverso la televisione, prendere atto di come la televisione ci guarda. Ossia come esercita la sua funzione e la sua influenza sociale, rafforzando le tendenze presenti nel costume, rendendole emblemi, intensificando orientamenti condivisi. Sotto questo profilo, è chiaro che la soap risolutiva nel volgere del secolo è stata "Sex and the City". Molto più di "Desperate Housewifes", che mantiene una traccia di inquietudine proveniente dai sogni cattivi e patinati di Lynch (e per non parlare di "Lost", serializzazione di totem e tormentoni simbolici, virtualmente inspiegabili, macchinazioni del senso, congiure della realtà ai danni dei naufraghi nello spazio del mito). "Sex and the City" era il modulo irresistibile di ciò che le donne non dovrebbero dire, secondo l’educazione classica, e che dovrebbero fare solo di nascosto. Ma lo sfondo della metropoli, della New York dei loft e dei party, dei gay e delle glamour story, dei drink e dei preservativi, proiettava i comportamenti privati su uno schermo metropolitano totale, facendo di ogni innamoramento un potenziale evento d’epoca, e del "making sex" il suo coronamento fattuale, magari faticoso o deludente quanto ineluttabile, una prova o un’ordalia del "clash" di personalità, se non proprio di civiltà: ossia la trasposizione metropolitana dei modelli geopolitici di Huntington, applicati alla relazione fra il genere femminile trionfante e gli uomini-fuchi. In ogni caso, la tv americana, i grandi serial di Fox, le migliori soap formano la propria visione delle cose mentre la espongono. La differenza con il panorama televisivo italiano è abissale, proprio in quanto invece la televisione domestica risponde ancora a modelli di conferma e rassicurazione, che di solito fanno riferimento alla memoria (come nell’esemplare e fortunato "Raccontami"). È quindi per un chiaro riflesso paternalista che la fiction italiana tende a ribadire il passato più che a raffigurare il presente. Non si spiegherebbe altrimenti l’affollamento di pontefici, da papa Giovanni a Luciani a Wojtyla, e l’inflazione di Padre Pio, a suffragio di una religiosità descritta come stereotipo collettivo, non impegnativo moralmente ma coinvolgente in via sentimentale: un cattolicesimo del cuore funzionale sia alla propaganda di Forza Italia sia alla tradizione rappresentata dall’Udc e dalla sensibilità della sinistra "postsecolare". Si tratta di un codice mélo che può investire tanto la vicenda di Edda Ciano o Maria José quanto la tragedia delle foibe, in cui si accenna al revisionismo senza implicazioni politiche stringenti, ma comunque ammiccando a destra. Quindi per cercare tratti di realtà collettiva, "modelli" di valore (o di disvalore) risulta più agevole rivolgersi ai grandi reality: in special modo al "Grande Fratello", dove la trasposizione dalla strada allo show è immediata. Gli italiani dei reality parlano male, con forti accenti regionali, esibiscono tatuaggi, praticano attività erotiche senza lacci né lacciuoli, e soprattutto complottano sottovoce tutti contro tutti, a testimonianza di una società afasica e attenta più che altro ai rapporti di potere e di consorteria, a qualsiasi livello. Mentre "L’isola dei famosi" dovrebbe dire qualcosa dell’inclinazione nazionale al sadismo, cioè al gusto infantile di deridere vip e semi-vip, con una sorta di risarcimento risentito, una cattiveria che provoca continui piaceri succedanei. Oppure, sempre per andare a caccia di realismo, o almeno di "realiticità", è ancora conveniente l’immersione nel format del talk show. Perché nei salotti serali si allestisce il vecchio dibattito, ma praticato tutto in chiave "post", di solito come contrapposizione senza scampo, fra alternative e inimicizie politiche ultimative, incomunicabili, uno scontro di antropologie all’ultimo sangue. Nel flusso ininterrotto della seconda o terza serata, nella "reality fiction" della discussione, Bruno Vespa pratica il suo ruolo semi-istituzionale, Giovanni Floris con "Ballarò" dà un contorno di razionalità politica al centrosinistra, mentre Michele Santoro esplora le alternative radicali e Enrico Mentana alterna con una sua sapienza giocolieristica l’informazione e l’intrattenimento. Ma forse per trovare nella televisione "discutidora" il sentimento dominante o più in voga vale la pena di seguire i programmi "laterali" e di nicchia: la coppia Ferrara e Armeni a "Otto e mezzo", incarnazione di un ossimoro politico, specializzata nel proporre su ogni argomento rotture di fase, scarti dalla convenzione, punti di vista eccentrici. Le interviste di Daria Bignardi, con il loro andamento ipnotico, con il loro ritmo inesorabile. E anche le invenzioni di Antonello Piroso, con il suo sforzo di unire cronaca leggera e approfondimento pesante; o la conduzione calcistica, competente anche se "di gola", di Ilaria D’Amico, un cult della domenica in cui passa la visione del calcio come fenomeno insieme importantissimo e inessenziale. E non è certamente un caso il successo via via più incontrastabile del pool di Fabio Fazio, forse l’incarnazione tv più credibile del partito democratico in veste veltronica, un infotainment che crea consenso, anzi, che somma consenso a consenso, riuscendo perfino a proporre al pubblico in prima serata scrittori come Mario Rigoni Stern e Luigi Menghello. Eppure, per andare alla ricerca di come la televisione ci guarda, è tutto dire che il test più credibile sia ancora "Un medico in famiglia", la storica fiction di RaiUno giunta ormai alla quinta edizione. In cui la casa color salmone si è spalancata ai fenomeni sociali, e dove Lino Banfi padroneggia sempre più a fatica la sfasatura tra la domesticità dialettale, con i suoi proverbi problematici, e l’irruzione multiculturale. Tutt’al più si potrà notare ancora la deprimente sfasatura di qualità, salvo pochissime eccezioni, fra i serial italiani e quelli americani. E consolarsi con la constatazione di Aldo Grasso: «Spesso si fa fatica a trovare un romanzo moderno o un film che sia più interessante di un buon telefilm. C’è in giro, per esempio, un’opera che rappresenti un viaggio metafisico fra i segreti del Male più avvincente di "I segreti di "Twin Peaks"?». Con la conclusione implicita che per cercare l’arte, e l’interpretazione della società, ci vuole la meta-industria del simbolico. Perché sembra proprio che siano le storie, o meglio le "story", a fare la storia. n
19/04/2007