Quelli che defezionano dalle coalizioni, o non ci vogliono entrare, respingono sempre con indignazione l’accusa di contribuire alla sconfitta. Anzi, rovesciano il capo d’imputazione contro i mancati alleati. Così Fausto Bertinotti degrada l’Ulivo per la sua deriva "centrista, confindustriale e vescovile", e davanti a Mirafiori ripropone l’estetica della sinistra bella, plurale e perdente. Rifiuta la Realpolitik e rievoca il sogno. Aggredisce i compromessi e sotto sotto si capisce che il suo bersaglio polemico è Massimo D’Alema: per dare uno scrollone alla sinistra deve agire sull’uomo forte dei Ds, favorire la sconfitta purificatrice e preparare il terreno per la soluzione "francese". Come se in Italia esistesse un partito socialista in grado di risultare maggioritario nell’elettorato. In realtà, l’atteggiamento di Bertinotti, classico quanto prevedibile, nasconde il timore che Rifondazione comunista stia rischiando più dell’immaginabile sulla soglia di sbarramento alla Camera e che quindi sia necessario recuperare alla svelta presenza e visibilità negli ultimi giorni di campagna elettorale. Un discorso analogo investe Antonio Di Pietro e il suo movimento. Anche l’ex pm rivendica una purezza che il centrosinistra avrebbe perduto, e anche l’Italia dei valori vede il 4 per cento come un miraggio. Insieme, Bertinotti e Di Pietro potrebbero incarnare nei confronti dell’Ulivo la figura dei maramaldi: se il 13 maggio il centrosinistra si rivelasse effettivamente un uomo morto, Fausto e Tonino rigetterebbero tutte le responsabilità della sconfitta sui perdenti. La colpa è sempre di chi perde, non di chi ha favorito la batosta. Si tratta di vedere se nell’elettorato c’è effettivamente la voglia di punire l’Ulivo, cioè se esiste un complessivo 10 per cento di votanti a perdere, che preferiscono bastonare Rutelli piuttosto che battere Silvio Berlusconi.
03/05/2001