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Walter fictional

14/09/2006

Il primo romanzo di Walter Veltroni, "La scoperta dell’alba" (Rizzoli) ha un titolo letterario, ma si sarebbe intitolato più precisamente "Il collezionista di vite": perché l’io narrante, Giovanni Astengo, è istituzionalmente un raccoglitore di biografie: «Da anni, all’Archivio di Stato, mi occupo di raccogliere, catalogare e riassumere i diari che i miei contemporanei non smettono di scrivere. Piccole opere, stampate spesso a spese degli autori, nelle quali ciascuno, arrivato a una stazione della sua vita, sente il bisogno di raccontare al mondo la sua esistenza». Sicché il protagonista del romanzo sembra la negazione esatta del proprio nome, con quel richiamo evidentemente voluto all’astensione. Anzi, è dominato dalla voglia di immergersi nelle vite, la propria, le altrui. Più che astenersi, Giovanni Astengo, archivista di Stato e quindi ricercatore storico (con un richiamo civettuolo, una "mossa" magistrale, alla moglie di un compagno e rivale politico), pratica la sospensione: ferma il tempo per andare alla ricerca e sciogliere il mistero della propria esistenza, la scomparsa del padre.Un autobiografismo, quindi. Ma più che inseguire le vicende della trama del romanzo, in cui il senso di quella perdita viene proiettato sullo sfondo luttuoso degli anni di piombo, conviene chiedersi per quale motivo un uomo politico di spettacolare successo abbia scelto proprio la forma romanzo. Per rivelarsi e anche per nascondersi, è la prima risposta. Dev’esserci una simmetria fra il Veltroni leader politico e il Veltroni autore: e questa simmetria dipende probabilmente dalla volontà di esporsi, dalla disponibilità a manifestarsi e nello stesso tempo a rappresentarsi. E infatti, sia i romanzi sia gli esponenti politici condividono qualcosa, o molto, della finzione: e l’aspetto "fictional" del libro veltroniano serve più che altro a confondere le acque, a ingrigire i colori. L’omicidio politico sfuma nella rivalità, nella gelosia e nel tradimento umano. I colori dell’alba servono per ripristinare un contatto con il se stesso di trent’anni prima. L’espediente narrativo per fare parlare il Giovanni Astengo di oggi con il tredicenne di allora, quando il padre fuoriesce dalla sua vita, è materializzato da una trouvaille d’epoca, un telefono di bachelite nera. A mano a mano che il passato prende forma, si disegna un film in bianco e nero, in cui la violenza inconsulta della politica e il cedimento morale sfumano nella stessa gamma cromaticamente neutra. Il libro di Veltroni è piuttosto la descrizione di un romanzo che non un romanzo in sé compiuto. Tuttavia è esente da goffaggini, ed è talmente veloce e ben concatenato da portare l’interesse del lettore fino alla conclusione. Veltroni non veltroneggia: lascia cadere nelle pagine qualche predilezione cinematografica, da quella commedia "slapstick" che è "Ma papà ti manda sola" ai cangaçeiro di Glauber Rocha, aggiunge qualche tocco letterario, con ripetute dediche a Italo Calvino, infioretta con qualche citazione latina anche insolita («Numerantur, sed ponderantur»): ma senza mai esagerare. Il piccolo romanzo quindi non dispiace, anche se resta il dubbio, alla fine, che l’autore si sia nascosto molto di più di quanto non abbia voluto svelarsi. Ma forse è proprio questo il senso del ricorso alla forma narrativa: "fare i conti" anche letterariamente con la propria generazione e con la propria esistenza, per un politico di successo, è ancora un’operazione prematura. In fondo non è consentito a un cinquantenne ricorrere all’autobiografia. Solo che la scelta tecnica del romanzo conduce allora a un deficit di radicalità. La "fictionality" mette in movimento passioni, pentimenti, agnizioni, rivelazioni, ma conservando tutto dentro una convenzione che fa da filtro, che modella la voglia di confessare la propria storia con il desiderio di comporre un’altra storia. È davvero un romanzo, "La scoperta dell’alba", più che una confessione. Solo che a leggerlo come tale, viene il rimpianto per la storia vera, che ancora Veltroni non ha deciso di poter raccontare. n

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