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01/11/2007

I partiti come Dio comanda hanno il Pantheon. Numi tutelari che illuminano il presente e risvegliano echi dalle distanze remote di un passato glorioso. Ma il Partito democratico non è un partito classico. Non ha un passato né una memoria. O meglio, di memorie ne ha due, entrambe poco utili: possiede una parte della memoria del Pci e la memoria della sinistra democristiana. Quindi sarà meglio darsi da fare, alla svelta. Nell’impossibilità di edificare su due piedi il tempio della memoria, Veltroni potrebbe intanto pubblicare il nuovo album delle figurine Panini del Pd. Meglio che niente, l’album. Perché ogni album che si rispetti, per completare la collezione, deve eliminare i doppioni e gettare nel cestino le figurine fuori stagione. Provare per credere: mettere insieme le figure principali, della politica e soprattutto della cultura, per allestire la nuova costellazione "democrat", è un’impresa eroica. Implica sacrifici, abbandoni, riesumazioni, recuperi, salvataggi. In parte è un gioco al massacro e in parte un’operazione di cesello. Vogliamo cominciare? Si comincia dalla figurina numero uno, quella di Palmiro Togliatti: togliere, togliere. Il Pd non può avere niente in comune con la "doppiezza" e la "democrazia progressiva" del compagno Ercoli, che allora sarà stato il Migliore, per i comunisti, ma per tutti gli altri mica tanto. Magari, con la benedizione di Rosy Bindi e dei Dico, si potrà salvare un posticino per Nilde Iotti. Al posto di Togliatti, via libera per Alcide De Gasperi, il cattolico liberale che proprio Palmiro voleva mandare via a pedate: «Vattene via, odioso Cancelliere, o ti manderemo via a calci nel sedere». Ma fatta questa prima ardua scelta, bisogna aprire subito una bustina di figurine ancora più problematiche. Gramsci? Berlinguer? Qui forse si può essere meno radicali, e giocare di distinguo. Il filosofo imprigionato da Mussolini può essere utilmente collocato in una sezione di storici; mentre per Enrico Berlinguer ci vuole una didascalia a luci e ombre: che dimostri la capacità di staccarsi dal blocco sovietico, ma che critichi le contraddizioni e le lentezze dell’eurocomunismo. Invece via libera ad Aldo Moro, che per il talento di inglobare fenomeni complessi in vaghe nebulose potrebbe essere considerato una specie di Veltroni triste, e sul lato "radical" a don Milani, un altro dei precursori veltronici (già, "I care"). E se c’è bisogno di equilibrare il prete di "Esperienze pastorali" sul lato laico, c’è sempre l’ombra di Norberto Bobbio, che nella sua lunghissima vita e carriera ha parlato di tutto, e che dunque può essere chiamato a suffragio nel caso di problemi indecidibili, come autorità filosofica e giuridica rassicurante. Poi conviene andare alla radice, e liquidare la genealogia marxista. Tranne Marx, naturalmente, di cui si rifiuterà tutto, dal principio della lotta alla teoria del plusvalore, dalla struttura alla sovrastruttura, salvo il suo genio nel descrivere i processi storici di lunga durata: «Grande ammiratore della modernità borghese», si può concludere osservando in controluce la sua figurina, «basta leggere che cosa dice nel "Manifesto" del 1848». Invece pollice verso per tutti i filosofi marxisti o marxiani da Lukács in poi, e per i teorici della Scuola di Francoforte, Adorno, Horkheimer, Marcuse (con un’eccezione per Habermas, ma solo perché ha dialogato con Ratzinger). Se infatti si deve andare alla ricerca di padri fondatori e maestri di pensiero, il vero e sensibile "democrat" si inchinerà di fronte alla sacra figurina di Alexis de Tocqueville, l’autore di "La democrazia in America", il pensatore che individuò la sindrome della «tirannide della maggioranza». Ma in certe occasioni si potrà scambiare la figurina di Tocqueville con quella di Max Weber, maestro di ogni prospettiva liberaldemocratica. E poi si potrà andare a caccia dei pensatori moderni, l’insuperato John Rawls di "Una teoria della giustizia", filosofo contrattualista e neokantiano, l’autore di una delle ultime grandi teorie per "salvare" concettualmente e politicamente il welfare state; per poi arrivare alla filosofa più trendy, Martha Nussbaum, una sessantenne femminista liberale, costruttrice di un’idea di persona che integra razionalità ed emozioni, e il cui nome si associa inevitabilmente al guru Amartya Sen, l’economista di maggiore successo nell’ultimo ventennio (insieme al critico della globalizzazione Joseph Stiglitz), la cui analisi si è sempre rivolta criticamente allo sviluppo concepito soltanto in termini quantitativi. Diventano complicate le cose sul piano iconografico, perché a parte John Kennedy, e magari Bob Dylan e Joan Baez, e forse il "boss" Bruce Springsteen, il Pd nostrano non sembra dimostrare troppa fantasia. Ma niente paura, basta ricorrere al vecchio Jovanotti di "Penso positivo": «Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa che parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa». Un pensiero troppo eclettico? Ma no, basta interpretarne soprattutto il lato dell’immagine, dell’"icona", non le idee. Questo vale anche per i papi di riferimento: addio a Paolo VI, pontefice del dubbio cavernoso, e largo alle immagini di papa Giovanni XXIII, quello della veltronica carezza ai bambini, e all’ipermediatico Karol Wojtyla (di cui vale doppio la figurina che lo rappresenta sul monte Bianco mentre benedice la Russia, salvandola così solennemente dalle tragiche profezie di Fatima). Tanto più che c’è l’altra immagine, quella che lo raffigura mentre dice che ci sono nel marxismo dei «grani di verità», espressione adattissima all’ala sinistra e pensosa del Pd. Certo, con i papi e la chiesa bisogna andarci sempre cauti, perché si era già pedissequamente classificato Joseph Ratzinger fra i conservatori, anche in seguito ai peana di Giuliano Ferrara e degli atei devoti, quando lui, Benedetto XVI, viene fuori con la storia che il lavoro precario «mina le basi della società», e spiazza tutti. Meglio scendere di livello, quindi, e passare dal trono di San Pietro alla cultura popolare: per esempio, non si è ancora sentita una parola sull’inno dei democratici. È ormai tramontata la stella di "C’era un ragazzo" di Gianni Morandi, perché troppo legata a un’idea da anni Sessanta- Settanta, quando il Vietnam era "la sporca guerra", e non si valutava compiutamente la natura geopolitica dell’impegno militare americano. Quindi se si vuole un inno c’è sempre a disposizione l’ormai logora "Imagine" di John Lennon, che viene cantata anche nei saggi di fine quadrimestre della terza elementare. Tanto varrebbe, pur restando in area Beatles, ripiegare prudentemente su "Let it Be", che si rivolge alla Madonna e quindi soddisfa le istanze cattoliche; ma è ovvio che per noi ragazzi dei Sessanta l’inno rimane "È la pioggia che va" («Il mondo ormai sta cambiando / e cambierà di più / Ma non vedete nel cielo / quelle macchie di blu…»: l’hanno suonata anche all’ultimo congresso della Margherita, fra le lacrime dei delegati). Poi occorrono un romanzo e un film di riferimento. Per il romanzo, sembra ormai molto datato "Cent’anni di solitudine" di Gabriel García Márquez, troppo sudamericano e marginale rispetto alla globalizzazione; mentre guadagna punti ogni giorno il bestseller di Khaled Hosseini "Il cacciatore di aquiloni", storia afgana che ha appassionato il largo pubblico, guadagnando masse di lettori con un passaparola incessante. Quanto al film, si tratterà di aprire un dibattito, perché nonostante il sostegno di Veltroni, molti pensano che "Novecento" di Bernardo Bertolucci sia una pistolata che doveva celebrare il compromesso storico attaccando la cattiveria dei fascisti e la corruzione dei borghesi (per rinfrescarsi la memoria, si dovrebbe recuperare la stroncatura di Alberto Arbasino, su "la Repubblica", intitolata "L’epica nel pollaio"). Per trovare un film autenticamente "democrat" e anticattivista non dovrebbe esserci che l’imbarazzo della scelta, dallo spilberghiano "Schindler’s List" in giù, magari proprio giù giù fino a "La vita è bella" di Roberto Benigni; ma molti preferiscono una storia americana tipo "Come eravamo" di Sydney Pollack, con Barbra Streisand giovane, ebrea e comunista, e Robert Redford bello, scafato e cinico. Oddio, c’è anche il caso che il Partito democratico risulti un fallimento, e allora occorrerà riprendere la figurina del sessantottesco "Una risata vi seppellirà". Ma anche in questo deprecabile caso, ci sono ormai alternative secche, decisioni obbligate: addio alle figurine di Sabina Guzzanti, e forse anche di Corrado suo fratello, e benvenuto al pensatore più in palla dell’arena democratica, ossia Neri Marcorè. Perché Neri Marcorè è leggero, gentile, quasi soave, suona la chitarra, imita benissimo il democratico Ligabue. Qualcuno ricorderà la sua versione di una delle canzoni più note di Ligabue: «Una vita da prodiano / sempre a prendere schiaffoni / a tenere tutti buoni / circondato da coglioni / Una vita da prodiano…». Qualche volta nelle figurine, nelle canzoni e nelle parodie, c’è la verità. Democratica. n

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