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MEGLIO UN ULIVO OGGI …

14.12.1995
ITALIA
DILEMMI POLITICI / Il paradosso della "coperta troppo corta"

"Prima di guardare alle debolezze dell’avversario è meglio pensare alle proprie". Massimo Cacciari, sindaco di Venezia, ha l’abitudine di trattare con sovrana crudeltà i peccati originali della sinistra. Sembrerà singolare che sia un filosofo soffuso di fascinazioni mitteleuropee ad affondare il coltello del realismo politico nella carne molle della sinistra. Eppure, se si va a frugare nel pensiero apparentemente forte dei progressisti, per trovare la nuda durezza delle cose occorre inseguire il pensiero debole di un autore Adelphi. Avrebbe tutta l’aria di una contraddizione in termini. Ma va considerato che, in questa fase storica, la sinistra, e non solo ovviamente quella italiana, si trova davanti a un dilemma davvero d’ eccezione. Da un lato, può risolvere il problema della competitività elettorale con la destra, allestendo alleanze, mediando sui programmi, tentando di rendere attraente la sua proposta per i ceti mediani, favorevoli alle opportunità del mercato ma affezionati ai paracadute dello stato sociale. Tuttavia, così facendo, lascia sguarnito il versante delle domande ultime. E’ sorda alle angosce e alle rabbie degli orfani del socialismo; alle minoranze ad alta intensità emotiva non dà risposte di lungo periodo sui temi che le rendono inquiete, né sui margini di sviluppo delle società avanzate né sulle chance di riscatto dei sottoprivilegiati. Senza scomodare il collasso dell’ideologia, la crisi di identità della sinistra è marcata dal fatto che la destra si propone con maggiore naturalezza per la gestione del presente. Allorché Achille Occhetto mise su strada la gioiosa macchina da guerra, apparve subito evidente che l’alleanza progressista conteneva un vizio irrimediabile, un impianto meccanico rétro, ghisa e stridore di cingoli. Con la radicalità di tutte le destre moderne, da Ronald Reagan a Newt Gingrich, il Polo offriva formule avvincenti, di spendibilità immediata. Dato un tema qualsiasi, la destra ha sempre certezze, la sinistra, quasi sempre dubbi. Il Polo, fuochi artificiali tra Milton Friedman e il presidenzialismo; l’Ulivo, una meditata propensione a ricercare soluzioni complesse. Infinitamente più intriso di Realpolitik del suo predecessore, Massimo D’ Alema ha risolto con brillantezza l’equazione elettorale. Il lancio dell’Ulivo e di Romano Prodi è stato almeno all’inizio un ottimo lavoro tattico. Resta da vedere qual è il suo contenuto strategico, e la sua effettiva capacità di attrazione sull’ elettorato di centro, ma sul breve termine il gioco è riuscito. La portata ideologica è debole, le discriminanti non sono mai fatali. L’ Ulivo è una seria agenzia politica che vende moderazione. Offre il capitalismo "renano" teorizzato da Prodi con un occhio all’ economia sociale di mercato del Modell Deutschland. Un modello rigido, da snellire tuttavia in modo mirato, nel rispetto delle compatibilità economiche ma anche di un profilo di società fair, senza rischiare contraccolpi di tipo thatcheriano. La Lady di ferro diceva provocatoriamente "quella cosa chiamata società non esiste". Per la Cdu di Helmut Kohl la società esiste eccome, esistono i sindacati, i corpi intermedi, le associazioni professionali, le comunità religiose, il volontariato, il "terzo settore". Proprio come per l’Ulivo. Solo che gli eredi di Konrad Adenauer sono un grosso e tradizionale partito popolar-conservatore, una destra non ostile alla modernizzazione, mentre il centrosinistra di casa nostra è un ponte gettato fra ex democristiani e postcomunisti: in sostanziale controtendenza rispetto alle principali democrazie europee. E’ un errore quindi parlare di un progetto socialdemocratico, come fa spesso Francesco Cossiga. Perché così fosse, ci dovrebbe essere un’egemonia paraideologica del Pds che D’ Alema fa di tutto per non mostrare. L’ Ulivo in realtà sfiora il postmoderno, non l’esperienza storica del Novecento: se si dovesse rispettare rigorosamente l’asse destra / sinistra, il centrosinistra si dissolverebbe. E’ la composizione di segmenti resi acefali dalla storia che trovano un senso nello stare insieme e nello stare contro qualcun altro. E quindi è un prodotto a suo modo originale: tanto è vero che non risultano convincenti le automatiche accuse di cattocomunismo. Di comunismo infatti se ne vede proprio poco, mentre è fortissima l’eco di un cattolicesimo (a differente grado di secolarizzazione) che sta diventando la radiazione fossile dell’universo postideologico italiano. Sul piano elettorale, quindi, il centrosinistra può funzionare. Dove rischia di cedere è invece sul piano politico, proprio in quanto è il prodotto di una supermediazione. Riassumendo: la sinistra si sposta al centro, interpretando adeguatamente il maggioritario; così facendo, tuttavia, vede sfumare le proprie ragioni di fondo, le stempera fino a renderle scarsamente riconoscibili. In tal modo consegna l’archivio degli affetti agli antagonismi di Rifondazione comunista, e alla polemica intellettualistica quanto sentimentalmente efficace di Fausto Bertinotti contro la crescita capitalistica, in quanto brutale incremento delle merci prodotte e vendute. Il compito che D’ Alema ha delegato a Prodi è di mettere insieme l’oggi con il domani, il prodotto elettorale con il modello politico. Gli sarebbe stato più facile perseguire l’ipotesi, perdente quanto gratificante, della radicalizzazione tardosocialista, oppure patteggiare con l’establishment la riedizione del neocorporativismo, con il balletto della concertazione permanente e i buoni uffici di un tecnico. Ha scelto invece una partita difficile, un leader "one shot" come Prodi, la via della trasformazione della sinistra nel partito dei moderati. Cesare Romiti attribuisce per l’appunto all’ Ulivo maggiore "senso dello Stato". Bisognerà vedere se gli elettori riconosceranno a Massimo e a Romano, oltre a una dote che richiama il passato, anche la capacità di pilotare il paese sui flutti del cambiamento, dove cantano sirene suadenti, e dove dirsi alternativi alla destra implica essere rassicuranti con tutti i passeggeri e nello stesso tempo convincere l’equipaggio che c’ è una terra in attesa, oltre il mare. QUALCUNO ERA COMUNISTA Insieme a Destra e sinistra è forse il brano più gettonato dello spettacolo con cui Giorgio Gaber riempie ogni sera (fino a maggio) i teatri delle principali città italiane. Una riflessione autobiografica su trent’ anni di sinistra in Italia. Panorama ne propone qualche strofa. Qualcuno era comunista Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà… la mamma no. Qualcuno era comunista perché si sentiva solo. Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona. Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona. Qualcuno era comunista perché era talmente affascinato dagli operai che voleva diventare uno di loro. Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di fare l’operaio. Qualcuno era comunista perché c’era il grande partito comunista. Qualcuno era comunista malgrado ci fosse il grande partito comunista. Qualcuno era comunista perché non c’era niente di meglio. Qualcuno era comunista perché abbiamo avuto il peggior partito socialista d’ Europa. Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri. Sì, qualcuno era comunista perché, con accanto quello slancio, ognuno era… come più di se stesso. Era… come due persone in una. Da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e … dall’ altra il gabbiano senza più neanche l’intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo.

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