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SCOPPIA LA PACE FREDDA

18.07.1996
INTERNO

È possibile che il martedì il capo del governo venga coperto di urla alla Camera dall’opposizione e il mercoledì maggioranza e minoranza trovino improvvisamente l’accordo sugli strumenti della riforma istituzionale? È possibile, evidentemente. Ma il passaggio dalla rissa politica a un armistizio, a una pace fredda, comunque a una cessazione delle ostilità, è troppo vistoso e repentino per essere attribuito a una resipiscenza delle forze politiche e alla preoccupazione per l’acuta necessità di riformare le istituzioni. E quindi prima di valutare che cosa rappresenta l’accordo di ieri sarà opportuno registrare alcuni aspetti sullo sfondo. Innanzitutto, c’è da dire che l’attacco a freddo portato da Romano Prodi sarà pure stato stilisticamente inappropriato, ma qualche effetto lo ha ottenuto. Se infatti si valutano semplicemente i risultati, va riconosciuto che nessuna delle ipotesi (altamente preoccupanti) che incombevano sul governo e che deprimevano il presidente del consiglio è ancora attuale. Non sono più all’ordine del giorno né premier alternativi a Prodi, allargamenti e ricomposizioni della maggioranza, né cadute e reincarnazioni del governo sull’altare di un processo costituente. Fino alla radicalizzazione dello scontro politico cercata con una specie di forza della disperazione dal presidente del consiglio, la questione istituzionale era infatti la possibile esca di ogni crisi. Sul tema della ristrutturazione costituzionale si giocava infatti ogni strategia, anche la più rocambolesca, per immaginare soluzioni che avrebbero allegramente scompaginato l’equilibrio politico uscito dalle elezioni del 21 aprile. Con l’intesa di ieri, la riforma delle istituzioni si parlamentarizza. Vale a dire, cessa di essere un’arma puntata sul governo e prende una via tradizionale, parlamentare, conosciuta, comoda: e soprattutto dal destino perfettamente incerto, visti i precedenti delle commissioni per le riforme. Ma a osservare nella sua interezza la giornata di ieri, riesce difficile sfuggire alla sensazione che l’accordo sulle riforme sia soltanto uno dei tasselli di un negoziato più ampio. Chiamarla trattativa può apparire una forzatura. Diciamo allora che ieri si è assistito a una vicenda a due facce, a una doppietta politica il cui primo colpo è consistito nell’avvio del processo di regolazione del sistema televisivo, e il secondo colpo nell’intesa sulle riforme istituzionali. Se si denunciassero relazioni pericolose fra questi due momenti, si subirebbero smentite sdegnate. Quindi conviene non andare oltre la puntualizzazione dei fatti. Con il progetto illustrato dal ministro Maccanico, Silvio Berlusconi ottiene un risultato che nessun altro governo avrebbe mai potuto garantirgli. L’integrità di Mediaset è ormai fuori discussione, il patrimonio imprenditoriale è assicurato, gli interessi televisivi sono tutelati, come dimostra il sostanziale sospiro di sollievo di Fedele Confalonieri e la malcelata soddisfazione dei vertici aziendali. Senza dire che si aprono prospettive di un certo interesse anche in altri settori delle telecomunicazioni. Insomma, il futuro di Berlusconi come imprenditore è garantito. È il suo futuro politico a essere in discussione. Leader appesantito dal conflitto d’interessi, ma comunque uomo cardine del Polo, il Cavaliere si trova davanti la necessità di agire politicamente, da capo autentico dell’opposizione. E, caso o necessità, dopo le ottime prospettive aperte da Maccanico, ecco l’opportunità di dimostrarsi un dirigente politico consapevole e moderato. Moderazione già peraltro dimostrata volonterosamente negli ultimi giorni, anche durante la rissa con Prodi. L’assemblea costituente? Per l’ultimo Berlusconi ci si può accontentare di molto meno, purché ci siano «tempi e procedure certe». Tramontata la minaccia su Mediaset, anche la riforma istituzionale può prendere una strada non conflittuale. A quanto si capisce, Belusconi e il Polo hanno scelto di non giocare più a oltranza il Big Bang istituzionale come carta politica. Nel Parlamento permane una netta divisione fra innovatori e conservatori, ma si direbbe che questa linea trasversale di divisione non darà luogo a fratture politicamente rilevanti. Sarà difficile infatti agitare nuovamente la bandiera della riforma costituzionale come qualcosa di mobilitante per l’opinione pubblica. Le commissioni infatti servono per trovare intese, per individuare formule di mediazione. Oltretutto, risolto il problema fondamentale di Berlusconi, quello patrimoniale (una posta di importanza drammatica, tale da giustificare in politica obiettivi negoziali sempre più alti, capaci di incorporare nelle pieghe di una trattativa globale anche l’aspetto delle garanzie proprietarie), sfuma anche la necessità di inventare riforme stratosferiche, presidenzialismi, architetture politiche decisioniste. Probabilmente si può tornare alla politica: e la politica, nella tradizione italiana, è fatta di ipotesi medie, di soluzioni prudenti, di metodi cauti. Male che vada, la scelta della creazione di una commissione bicamerale assicura un rinvio, un anno e mezzo di tempo. Poi, sullo sfondo di un Parlamento diviso, o si trova una riforma che non scontenti nessuno, oppure non si farà nessuna riforma. Ci guadagnano tutti qualcosa: primi fra tutti Berlusconi e D’Alema. E dietro le quinte anche il governo Prodi, che non si troverà di fronte la grande stabilizzazione politica, ma che perlomeno un periodo di bonaccia dovrebbe averlo guadagnato.

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