gli articoli LA STAMPA/

LA SINISTRA GOZZANIANA

02.09.1996
INTERNO
ANALISI

Era stato appena insediato l’attuale governo di mezza sinistra, e dal fronte del Polo si levava la recriminazione preventiva contro quello che già veniva chiamato «il regime». Parola che evocava echi nefasti come il cattocomunismo, il politically correct, la plumbea certezza attribuita ai cromosomi del socialismo reale e della sinistra dc secondo cui per governare il paese all’altezza delle proprie altissime intenzioni occorre condannare la società a una sobrietà forzosa, a una mestizia pensosa, a uno stile di vita solidalmente austero. Naturalmente la preoccupazione era in larga parte strumentale e comunque eccessiva. Al punto che ci sarebbe perfino da rimpiangerlo, il «regime», perché almeno avrebbe potuto consentire scontri belli e clamorosi su due opzioni nitide: qui il solidarismo con inclinazioni piagnone, là il sorriso straripante ma forse immotivato dello sviluppo. E invece no. Al punto che per denunciare la connaturata e persistente propensione del Pds a controllare organicamente le idee e per mostrare in ogni caso l’avversione del governo di centrosinistra verso la cultura e l’intellettualità senza briglie, lo scrittore Sebastiano Vassalli è costretto a citare sul Corriere della sera la «normalizzazione» della Rai e gli inasprimenti fiscali sul diritto d’autore: cioè un caso di pasticcio lottizzatorio goffamente temperato dalle professionalità (Rai) e un perfetto atto di autolesionismo (tasse sugli scrittori). Cioè buone scelte di pessimo gusto di una sinistra gozzaniana, in cui si miscelano in parti uguali buona volontà e cattivi risultati: esempi di mediocre esercizio del potere ben più che di deliberata perversità di regime. Se si volesse effettivamente andare alla ricerca dei peccati effettivamente gravi e potenzialmente mortali della sinistra occorrerebbe piuttosto identificare il clima di conformismo futile che si sta stendendo nel dibattito politico e nella vicenda culturale. Nessuno sa di che cosa discuta oggi la sinistra. L’unico dibattito di un certo peso, quello sulle foibe e sui buchi nella memoria storica, per la sinistra è destinato a restare un affare di vertice fin tanto che vale lo schema secondo cui equiparare nazifascismo e comunismo è una mistificazione: il che significa che il criterio di valutazione sui totalitarismi è dato sempre dalla certificazione delle buone intenzioni iniziali, stabilite politicamente. Ma per venire a noi, alla situazione economica e sociale di un paese per la prima volta dal ’47 amministrato da un governo di sinistra, come si fa a non essere stupefatti davanti all’evanescenza di un ambiente e di un atteggiamento culturale che non tocca e non approfondisce nessuno fra i problemi – pesanti, consistenti, aspri – del nostro presente? Qualcuno sa, ad esempio, dove avviene, a sinistra, la discussione pubblica sulla ristrutturazione dello stato sociale? E come le eventuali acquisizioni vengano divulgate? Oppure ci si deve accontentare della vecchia formula secondo cui per affrontare una delle questioni centrali, cruciali, drammatiche di questa fine secolo si tratterebbe sempicemente di «coniugare solidarietà ed efficienza»? Verrebbe voglia anche di sapere dove e come la sinistra sta elaborando il suo discorso pubblico sull’integrazione europea, sulla scuola e la formazione, ed eventualmente se sta pensando qualcosa a proposito del mercato, della concorrenza, e quindi dell’occupazione. E anche, per restare in provincia, della Lega e della secessione. No, la sinistra parla d’altro. Non l’aiuta affatto un’opposizione, quella del Polo, che manifesta tutta la propria animosità antigovernativa nel calcare la pronuncia della parola «recessione» (mentre l’area governativa dice eufemisticamente «rallentamento»), e che sulle privatizzazioni lascia parlare Gianfranco Fini: «Siamo favorevoli alle privatizzazioni». Pausa. «Ma senza svendere». Cioè un apparente buonsenso che però usa, vedi caso, le stesse parole dei tradizionali nemici del privato che allignavano nelle correnti dc. Evidentemente poco stimolata, la sinistra si appassiona di giornalismo stampato e televisivo, si accapiglia sul passaggio di Michele Santoro a Mediaset, rimpiange il tribuno della plebe e subito dopo affibbia cattivi voti a Lucia Annunziata: perché quello, il leader di Tempo reale, infiammava le piazze, mentre questa dirige il Tg3 facendolo assomigliare sempre più insidiosamente a un giornale. Al punto che ci si chiede: ma questo conformismo, questa omologazione al minimo, questa insostenibile fatuità da che cosa possono derivare? Il sospetto è che non si abbia traccia della cultura di sinistra perché la sinistra, quella che conoscevamo, non esiste più, e quella nuova deve ancora manifestarsi: per ora esiste una sinistra oltranzista, «antagonista», quella di Fausto Bertinotti, che mischia residui ideologici e furbizia politicista; e c’è una sinistra moderata a cui conviene spendere slogan e alla fine anche svicolare nel futile perché di fronte alla dura consistenza della realtà contemporanea non ha più formule sicure né soluzioni automatiche. E allora, anziché guardare in faccia la realtà, invita la Parietti come opinion maker a un dibattito della Festa nazionale dell’Unità, mentre veltroneggia sull’immaginario e anatomizza Umberto Eco. E nell’incapacità di affrontare i problemi strutturali della nostra società si rifugia nella cultura come piccolo grande show, nel detto e ridetto, nel chiacchiericcio evasivo del giorno per giorno: nei piccoli paradisi artificiali, inessenziali, anzi, come si sarebbe detto una volta, quando effettivamente c’erano le certezze, «sovrastrutturali».

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