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C’ERA UNA VOLTA LA DC LA PIU’ VOTATA DAGLI ITALIANI

26.09.1996
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STORIA E POLITICA

L’attenuarsi dell’intensità polemica dopo la disintegrazione di quello che fu il «partito centrale dell’area di governo e il cardine dell’intero sistema politico» consente di ripercorrere la storia della Dc senza cadere troppo facilmente in trappole ideologiche. Il volume pubblicato di recente da Agostino Giovagnoli è quindi un’occasione importante per riflettere sulla nascita, il potere e la morte della Dc, partito «italiano» per eccellenza, attraverso il quale si può leggere l’intero sviluppo della società nazionale a partire dall’ultimo dopoguerra. Studioso cresciuto sotto l’ala di Pietro Scoppola, Giovagnoli aveva già pubblicato nel 1991 un libro (La cultura democristiana. Tra chiesa cattolica e identità italiana) che costituisce uno dei più interessanti contributi sulla complessità e sull’articolazione politico-culturale della Dc. Il suo nuovo volume si presenta fin dal titolo con l’ambizione del libro «definitivo» sull’argomento. Non è un’impresa facile, in realtà, proporre interpretazioni definitive di un «partito-nazione» come la Dc. Per chiunque affronti la storia dc, la maggiore difficoltà è l’obbligo di muoversi in bilico fra il microcosmo interno al partito (il gioco delle correnti, i conflitti fra i leader) e una dimensione invece più ampia, che coinvolge il contesto internazionale, il processo di modernizzazione del paese, la caratterizzazione ideologica del partito e il suo rapporto con la società. Per condensare mezzo secolo di storia, Giovagnoli segue ordinatamente la cronologia, dal periodo costituzionale alla dissoluzione finale del partito, attraversando così l’età del centrismo, il centrosinistra, gli anni della contestazione e poi della solidarietà nazionale, fino al lungo duello con il Partito socialista di Craxi e al drammatico epilogo che in due anni, dal 1992 al 1994, distrusse la Dc. Ma per poter raccontare nei particolari la storia democristiana senza ridurla alla cronaca della microconflittualità politica interna ed esterna al partito, l’autore «incrocia» fruttuosamente la vicenda democristiana con una serie di prospettive che fanno da sfondo, da intelaiatura concettuale, e da criterio di spiegazione. Il primo «incrocio» concerne evidentemente il rapporto con la chiesa, incarnato all’inizio dalle due principali figure storiche di mediazione, De Gasperi e Montini. L’uno, il leader trentino, che aveva chiara l’intenzione di imprimere un’accentuata vocazione governativa alla Dc, concepita come uno strumento di democratizzazione dei ceti medi italiani, mentre l’altro, il futuro papa Paolo VI, che aveva maturato durante il ventennio un «progetto culturale» orientato a coniugare politicamente la guida democratica del paese alla fedeltà alla chiesa. Il rapporto con la chiesa accompagna e scandisce tutte le maggiori scelte politiche e i grandi momenti di crisi da secolarizzazione (i referendum sul divorzio e sull’aborto). Si potrebbe dire che per certi aspetti l’evoluzione e l’involuzione della Dc siano esemplificati dal variare della sua capacità di offrire una casa politica a un cattolicesimo italiano che cambiava simmetricamente al cambiamento della società complessiva. Giovagnoli illustra molto suggestivamente il gioco di rimandi fra la sensibilità cattolica, la Dc, il paese reale, e il modo in cui interagivano le inquietudini dettate dalla trasformazione dei costumi, delle convenzioni civili, dell’economia. Ma ci sono due altri aspetti a cui l’autore dedica un rilievo più costante, che danno la vera impronta interpretativa al libro. Il primo concerne la dimensione internazionale in cui si collocava l’azione democristiana: cioè il contesto del mondo bipolare, in cui la Dc espresse la sua doppia anima, quella esplicitamente «atlantica» e quella interessata alla distensione tra le superpotenze, con toni filoarabi e terzomondisti. Non si trattava evidentemente soltanto di direttrici di politica estera: in realtà la Dc era un partito che incorporava sino in fondo la logica della guerra fredda; pur rifiutando sempre di essere schiacciata su posizioni conservatrici, la sua funzione principale era quella di «diga anticomunista», e all’anticomunismo la Dc avrebbe sempre fatto ricorso nei momenti più critici, fino a trovarsi, dopo la fine del comunismo, senza una risorsa altrettanto spendibile. Il secondo aspetto riguarda invece una questione di sistema, la non completezza della democrazia italiana. Giovagnoli rintraccia infatti il vizio d’origine della Dc nell’impossibilità di un’alternativa politica, dato il deficit democratico del Pci. Ciò non sarebbe particolarmente originale, se non fosse che l’autore ne esplora ogni implicazione, cogliendo anche nei momenti di maggiore spinta innovatrice (come la scelta di centrosinistra all’inizio degli anni Sessanta, o per altri versi il periodo della solidarietà nazionale nel 1976-1979) il vincolo connaturato all’incompletezza del sistema democratico, e quindi una potenzialità politica inferiore rispetto alle attese, e un conseguente carico di frustrazioni. Se il libro di Giovagnoli ha una parzialità, essa consiste nel trattare sempre la vicenda democristiana come se dietro la lotta delle fazioni si intravedesse in ogni caso l’impronta di posizioni politiche ideali. Quello che è stato identificato come il «sistema di potere» della Dc è descritto infatti con rapidissime pennellate, che non rendono ragione del fitto intreccio che ha visto la Dc amministrare l’equilibrio fra politica ed economia pubblica. Ed è soltanto richiamata per sottintesi, non descritta, anche la grande trasformazione che ha coinvolto nel mezzo secolo la società italiana. Ma anche con le inevitabili stenografie di un’opera di sintesi, il volume di Giovagnoli offre un apporto destinato a restare a lungo fra i testi di riferimento sull’esperienza politica della Repubblica.

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