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CETI MEDI, L’ADDIO DEL PDS

29.09.1996
INTERNO

Secondo Romano Prodi, è stata costruita «una Finanziaria di sinistra che piace ai mercati». Per l’appunto: i mercati guardano i numeri e sembrano apprezzare una legge lievitata nel giro di poche ore al doppio del previsto. Nei dintorni del governo l’unico che oggi sembra manifestare un evidente disagio è Massimo D’Alema. Perché per lui e per il Pds, non contano soltanto i numeri della Finanziaria: conta anche, se non soprattutto, il suo contenuto. Conta il suo profilo politico, conta il suo impatto sociale, il suo effetto sull’opinione pubblica. Sotto questa luce, il Pds si trova in chiara difficoltà. Il varo della Finanziaria è avvenuto fra i canti di vittoria di Bertinotti, dei Verdi, dell’ala social-solidarista del Ppi, di Prodi. Mentre tutti cantano, D’Alema porta la croce: «Forse il governo si farà male, forse rischiamo l’osso del collo», anche se «non si era mai visto in Italia un governo prendere così di petto il dramma dell’economia». Il fatto è che per ottenere un risultato economico di drammatica urgenza, il Pds vede messo a rischio il suo obiettivo politico di lungo periodo. Perché D’Alema si muove, o meglio si muoveva, sulla scia di un calcolo strategico. Ai suoi occhi il Pds è il partito che deve diventare l’anello politico di saldatura fra la sinistra e i ceti medi. Perché i ceti medi sono il segmento elettorale decisivo nelle democrazie contemporanee. Senza andare troppo a ritroso, il Polo e Berlusconi riuscirono a vincere le elezioni politiche del 1994 proprio perché avevano offerto a quest’area di elettorato le risposte più convenienti, la combinazione più attraente fra continuità e innovazione. E due anni dopo, nella primavera scorsa, l’Ulivo era apparso più credibile proprio in quanto forza tranquilla: «invarianza» della pressione fiscale, ristrutturazione intelligente dello stato sociale, europeismo senza troppi sacrifici, esercizio del confronto politico senza esasperazioni. Ora siamo precipitati invece alla terapia d’urto, ed è una cura praticata massicciamente sui soldi, cioè con le tasse, anziché con la ristrutturazione della spesa. La prima conseguenza è che la Finanziaria colpisce nel modo più automatico, prevedibile, sicuro proprio i settori di società italiana più facilmente raggiungibili dal fisco: i soliti noti, le porzioni di elettorato che dal ’92 in poi, dai 93.000 miliardi della Finanziaria di Giuliano Amato, hanno sopportato il peso maggiore del risanamento finanziario. Aumenti dei tributi sulla casa (che hanno un effetto simbolico che va ben oltre l’entità del prelievo), un frullato di misure che significano minori detrazioni e maggiore contribuzione, e soprattutto la piccola patrimoniale mascherata costituita dalla tassa per l’Europa: è una serie di provvedimenti che toccheranno proprio quella parte di cittadini che è diventata politicamente mobile, poco sollecitabile sul piano dell’ideologia, che teme l’incertezza e chiede prevedibilità, che anche per questo tende sempre più a votare con il portafogli. In particolare l’una tantum pro-Maastricht, prevista come un’addizionale percentuale sull’Irpef, non farà altro che esaltare le già vistose distorsioni e le iniquità del sistema fiscale esistente, addensando il prelievo dove è già elevatissimo. Senza aggiungere infine che nessuno garantisce che il nuovo drenaggio tributario non assesti un altro colpo di freno all’economia, pregiudicando la ripresa dei consumi e penalizzando ulteriormente tutti gli operatori (imprese, aziende commerciali) che nel corso del 1996 hanno visto allentarsi sensibilmente il filo che congiunge produzione e consumo. Ce n’è abbastanza per capire che il compromesso «di sinistra» raggiunto dal governo è schizofrenico. Da un lato può rivelarsi adeguato, quando nessuno ci credeva più, a raggiungere l’approdo di Maastricht, ed è possibile anche che ciò significhi l’innesco di un circolo virtuoso capace di ripagare, fra alcuni mesi, i prelievi attuali. Ma dall’altro lato può implicare dentro il governo contraccolpi politici pericolosi. L’Ulivo infatti si era presentato agli elettori chiedendo esplicitamente il voto moderato e riuscendo a contenderne quote risolutive al centrodestra. Ora abbiamo uno dei principali atti di governo rivendicato dal presidente del consiglio, per autodefinizione «vecchio centrista», come una Finanziaria di sinistra (nel senso che aumenta pervasivamente il prelievo). Il cambiamento è vistoso. E ancora prima delle proteste del Polo contro un governo «veterocomunista» e delle minacce di mobilitazione antifiscale, va messa a fuoco la possibilità di uno squilibrio interno alla maggioranza. Perché Prodi non ha elettori, Bertinotti può speculare fruttuosamente sulla demagogia, Rosy Bindi gongola per avere tutelato il sistema sanitario. Ma D’Alema, che doveva costruire il partito socialdemocratico moderno, moderato, affidabile, una specie di rigorosa «democrazia cristiana di sinistra», osserverà da vicino l’irritazione dei ceti che voleva ancorare stabilmente al suo progetto. Si chiederà perché deve restare incastrato nella tenaglia che ha da una parte il pirotecnico Bertinotti, e dall’altra un Prodi arrendevole a Rifondazione. La risposta a questa domanda potrebbe essere innanzitutto la richiesta di una verifica politica, con il controllo dei patti scritti e non scritti. E con l’inevitabile carica di instabilità che ciò comporta, specialmente quando ci sono troppi invitati che fanno festa ai danni del padrone di casa.

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