gli articoli LA STAMPA/

SAXA RUBRA SULL’ORLO DI UNA CRISI DI NERVI

23.10.1996
INTERNO
ANALISI

La Rai sembra sull’orlo di una crisi di nervi, ed è per questo che non ci si riesce più a stupire di niente. Non ci si è stupiti per le dimissioni del direttore del tg1, Rodolfo Brancoli, dopo appena dieci settimane di lavoro, ed è stato accolto come qualcosa di molto vicino alla normalità il fatto che ci si sia subito messi a parlare di dimissioni anche per il Consiglio d’amministrazione. Dopo di che, non c’è da stupirsi se la frettolosa ricerca di un altro direttore ha portato al risultato piuttosto clamoroso del rifiuto preventivo di Giulio Anselmi, evidentemente poco desideroso di venirsi a trovare nella posizione di candidato numero uno del presidente Siciliano e di bersaglio di tutti i veti politici possibili. Come non risulta nemmeno stupefacente che per sostituire il mancato sostituto sia circolato il nome di Marcello Sorgi, responsabile del giornale radio da due soli mesi e fresco di gradimento della redazione: un’ipotesi «sciagurata» secondo il sindacato interno, e probabilmente anche secondo il buonsenso, che ha portato alla novità di uno sciopero per scongiurare lo spostamento del direttore. Potrà apparire una forzatura affermare che Saxa Rubra, con il suo intreccio di affiliazioni politiche e di blocchi corporativi, è un frammento che rispecchia il Paese nel suo complesso. Eppure osservando ciò che è successo negli ultimi mesi, il clima nevrotico che si è creato, gli psicodrammi provocati dall’addio di Michele Santoro e dalla rinuncia di Renzo Arbore, riesce difficile negarsi al sospetto che nel mondo piccolo della Rai sta succedendo qualcosa di troppo simile a ciò che sul piano generale si sta osservando per l’Italia attuale. Vediamo perché. I due momenti fondamentali della Rai nell’era dell’Ulivo, cioè l’insediamento del cda e le nomine al vertice dei telegiornali, sono stati un intreccio di lottizzazione e improvvisazione. La composizione del cda, privo di competenze specifiche, era un compromesso fra la dimensione letteraria e quella paramanageriale. Alle nomine si è poi arrivati attraverso le solite transazioni, e com’è noto le transazioni, quando si esauriscono le risorse da barattare, hanno la proprietà di condurre le ultime scelte sui candidati terzi, che risolvono conflitti altrimenti incomponibili ma al prezzo di soluzioni deboli. Tutto ciò ha dato una sensazione che si potrebbe definire di affanno curato con il velleitarismo: una sensazione non troppo diversa, per dire, da quella che si è avuta in questi ultimi tempi vedendo la Finanziaria raddoppiare in poche ore, o sentendo l’annuncio estemporaneo e non argomentato della rivoluzione fiscale. Come per l’economia si era pensato di produrre il risanamento sul velluto, senza sacrifici, così per la Rai evidentemente si era immaginato di trovare soluzioni che non incidessero sulle realtà aziendali più stratificate. E quindi Brancoli deve essere stato percepito come un fastidioso destabilizzatore, se davvero ha tentato di smembrare cordate e fazioni, ponendosi così come oggettivo elemento di tensione interna, così come Arbore doveva avere una funzione cosmetica ben più che funzionale. Non ci vuole molto a vedere una simmetria fra l’Italia in cui saltano i vincoli di lealtà fra le istituzioni, dando luogo a una serie di conflitti fra organismi fuori controllo, e una Rai in cui non si riesce a ristabilire una sicura e affidabile catena di comando. Forse ha ragione chi pensa che il servizio di informazione pubblica è un organismo così complesso che nessuno può pretendere di governarlo con l’autorità: a ogni livello, dalla presidenza alla direzione dei telegiornali, si tratterebbe soprattutto di galleggiare su fazioni politiche, gruppi sindacali, aree di privilegio professionale, ossificazioni burocratiche, senza alcuna illusione di cambiare alcunché. Si provi tuttavia a trasferire questo criterio al rango di metodo generale per governare il paese, e lo sconforto sarà irrefrenabile. Nella riunione odierna del cda dovrebbe essere individuato il nuovo direttore del tg1. Si tratta di una scelta che si è fatta straordinariamente delicata, non solo per il ruolo e la credibilità del maggiore strumento di informazione nazionale, ma anche perché il futuro direttore dovrà risultare anche il principale puntello del traballante consiglio d’amministrazione attuale. Posta questa premessa, le conseguenze dovrebbero essere obbligate. Non c’è più spazio infatti né per direttori scelti per assicurare qualche pennellata di modernità alla macchina del tg1 né per burocrati rispettosi soprattutto del quieto vivere. Dopo il grave fallimento collettivo (professionale, gestionale, politico) reso manifesto dal ritiro di Brancoli, ora il problema è se c’è la capacità di dare un segno che si vuole governare la Rai o se ci si accontenterà semplicemente di placare le acque. Dato che non si può ignorare lo straordinario peso politico attribuito dai partiti alla televisione (come dimostra l’agitarsi di leader e loro emissari per ogni nomina), il caso della Rai è già diventato un caso politico. Anche se il governo non è direttamente implicato, se dovesse acuirsi l’incapacità di controllo finora dimostrata per la Rai, nessuno scommetterà una lira sulla capacità del centrosinistra di gestire le altre realtà su cui si esercita l’attività di gestione, sulla sua propensione al rinnovamento, sulla sua volontà di non ripetere i contraddittori peccati fatti fin qui: commessi ora per congenita tendenza alla conservazione e ora per trafelata cedevolezza all’improvvisazione.

Facebook Twitter Google Email Email