Dopo che lo scontro tra Forza Italia e Alleanza nazionale sulla Commissione bicamerale era diventato acutissimo, non c’era che una via d’uscita, cioè l’arretramento di una parte. Il passo indietro è venuto da An. Un anno fa, giostrando dall’estremità del sistema politico, Gianfranco Fini era riuscito a provocare il fallimento del tentativo Maccanico, facendo emergere con il suo presidenzialismo oltranzista le contraddizioni dello schieramento di centrosinistra. Adesso l’interdizione non gli è riuscita. C’è stato un faccia a faccia tesissimo fra Berlusconi e il leader di An, ed è stato un conflitto che ha messo a rischio la tenuta del Polo per le libertà, e di cui sarà interessante valutare in seguito le conseguenze politiche. La decisione con cui Berlusconi ha tenuto la decisione di appoggiare la Bicamerale ha posto il suo principale alleato in una condizione insostenibile. Per il presidente di An la Commissione parlamentare per le riforme era sempre stata una seconda scelta, un «viottolo»: Fini ha sempre dichiarato che la via maestra verso le riforme consisteva nell’elezione di un’assemblea costituente. Le ultime iniziative di Francesco Cossiga gli avevano ridato la speranza che i giochi non fossero ancora fatti, che l’accordo tra Berlusconi e D’Alema potesse ancora essere sovvertito, che la Bicamerale potesse essere svuotata, che la parola in un modo o nell’altro finisse al popolo. Occorre anche considerare che per Fini e il suo partito la Costituente non rappresentava soltanto una scelta di metodo. L’assemblea eletta dal popolo avrebbe significato la possibilità di agitare il rifacimento integrale della Costituzione, cioè di spezzare il patto costruito nel dopoguerra dalla mediazione tra le forze antifasciste e di sostituirlo con qualche cosa di nuovo e di diverso, con un «nuovo inizio», con un superamento della storia e delle sue pregiudiziali. Questo disegno oggi sembra svanire. Per molti aspetti An viene normalizzata. Con la decisione di ieri il Polo entra infatti in un processo che non prevede discontinuità storicamente straordinarie. Se effettivamente ci sarà il passaggio alla Seconda Repubblica, esso avverrà tendenzialmente con una transizione morbida. Naturalmente ci sono ancora molte incertezze sul cammino delle riforme. La principale è che possano permanere, non solo nel Polo, atteggiamenti irriducibili, magari con l’obiettivo sottaciuto di provocare il fallimento sul campo della Bicamerale attraverso la dimostrazione quotidiana della sua inefficacia. Affinché la Bicamerale possa condurre a esiti decorosi, occorre quindi che il campo venga sgombrato da equivoci e possibili distorsioni. Innanzitutto essa non dovrà diventare lo strumento per la prosecuzione della lotta politica con altri mezzi. Ciò significa che saranno dannose tutte quelle iniziative tese ad agitare come irrinunciabili tesi predefinite in termini oltranzisti (e non importa che si tratti del presidenzialismo o al contrario del parlamentarismo). In secondo luogo il destino della Bicamerale è legato alla sua capacità di non apparire come la camera di compensazione fra i partiti, in cui l’architettura istituzionale sarebbe un banale punto di equilibrio al minimo e il frutto di di compromessi pasticciati tra gli interessi delle forze politiche. Per sfuggire a queste due tagliole, occorre uno sforzo comune dei partiti per «laicizzare», se così si può dire, il tema delle riforme. Cioè per renderle il dispositivo che consenta quella concentrazione di potere che è necessaria, essenziale, per consentire in futuro l’esercizio efficace dell’attività di governo. Le riforme devono diventare l’attrezzatura che rende possibile affrontare politicamente e operativamente i temi del ridisegno dello stato sociale e la rimessa in efficienza dello Stato e della pubblica amministrazione. Il resto, vale a dire la retorica dell’intransigenza presidenzialista e dalla parte opposta i prevedibili vocalizzi sulla intoccabile centralità del Parlamento, appartiene ormai non alle riforme come operazione pragmatica, ma alle riforme come ideologia: un autentico vizio politico, e che purtroppo non ha molti antidoti, se non il giudizio dei cittadini sul modo in cui le forze politiche avranno interpretato la responsabilità che hanno assunto di fronte al Paese.
15.01.1997