Oggi scioperano i ferrovieri, domani resteranno chiusi gli uffici delle poste. In seguito, fino al 23 febbraio, è previsto per i treni uno sciame di altre agitazioni, che ha fatto parlare la Commissione di garanzia per gli scioperi nei servizi pubblici essenziali di un «abnorme addensamento» delle proteste sindacali. Allorché si discute delle agitazioni nel settore pubblico, si rischia di cadere nelle litanie. Ma in questo momento ci sono alcuni aspetti che emergono con chiarezza, e pongono la questione degli scioperi pubblici sotto una luce diversa e più preoccupante. Non può sfuggire innanzitutto la clamorosa differenza che si è creata fra pubblico e privato, come ha sottolineato martedì scorso sulla Stampa Mario Deaglio: il contratto dei metalmeccanici si è concluso dopo una vertenza difficile e con un esito che incorpora necessariamente le compatibilità economiche interne e le condizioni competitive esterne; nell’area pubblica invece vige la regola dello sciopero preventivo: i ferrovieri cominciano a scioperare perché in questo caso si oppongono alla direttiva del governo sul riassetto delle ferrovie, mentre i postelegrafonici contestano il piano di riorganizzazione e le misure previste dalla legge finanziaria. Ricordare la raccapricciante prestazione dell’ente Poste (esposta alla Camera dal ministro Maccanico) serve soltanto a dare un esempio di come funzionano le sacche corporative di cui è ricca la pubblica amministrazione, e delle molteplici difficoltà che ostacolano le ristrutturazioni grazie al forte potere di interdizione detenuto dai sindacati. Un potere vischioso, denunciato nei giorni scorsi anche dal ministro dei trasporti Burlando come un fattore di inefficienza e di chiusura alle opportunità di mercato. Se la cattiva «cogestione» delle aziende pubbliche viene censurata da un autorevole esponente del Pds, iscritto alla Cgil, viene il sospetto che la situazione sia degradata al di là del concepibile. E questo induce a una riflessione ulteriore. Perché in questi mesi il paese è chiamato a uno sforzo eccezionale di risanamento per non smarrire la via verso l’approdo europeo, cioè per guadagnarsi fra un anno quel giudizio di ammissibilità all’Unione economica e monetaria che oggi tende, come si registra ogni giorno, al negativo. Per rovesciare questa valutazione occorre senz’altro acchiappare per la coda i principali parametri di Maastricht. Ma oltre agli indici ufficiali relativi alla finanza e all’economia esistono anche alcuni parametri occulti, a cui banchieri centrali e operatori politico-economici non sono insensibili, come non sono insensibili le opinioni pubbliche europee. Sono i parametri della credibilità politica e della stabilità sociale. Di fronte alle ordinate società dell’area del marco, il pensiero del disordine neolatino dell’Italia sarà pure uno stereotipo intriso di diffidenza, ma è anche un’inquietudine reale. Perché quando i tedeschi vengono in Italia misurano l’affidabilità del nostro paese sulla qualità del servizio pubblico, e il pensiero di condividere la moneta con il paese degli scioperi e dell’inefficienza dev’essere effettivamente angosciante. Poiché è inutile chiedere alle minoranze corporative di adeguarsi all’interesse collettivo, non resta che confidare nella capacità del governo di usare la mano ferma. Non foss’altro che per ragioni di equità: dal momento che il peso del risanamento risulterebbe insopportabile se la severità a cui una parte della società italiana faticosamente si adegua fosse ripagata con la tolleranza verso categorie ancora in grado di mantenere il privilegio con il ricatto.
09.02.1997