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TASSE L’EROISMO DEI TARTASSATI

29.03.1997
SOCIETA' CULTURA & SPETTACOLI
Fra evasione diffusa e meccanismi di autoassoluzione, in Italia la pressione fiscale sfiora il 50%: perché nonostante tutto, bisogna pagare

È già cominciato il prelievo dell’Eurotassa, e ormai manca poco alla dichiarazione di maggio. Le ultime stime dicono che la pressione fiscale in Italia è arrivata al 47,4 per cento (secondo i dati dell’Istat, nel 1990 era ancora al 39,6; e dire che nel periodo 1980-1992 si è assistito a un aumento di quasi 13 punti percentuali, straordinario sotto qualsiasi latitudine, Scandinavia compresa). Vuol dire che oggi quasi la metà del reddito nazionale prende la direzione del labirinto tributario, infilandosi in cunicoli misteriosi. Ciò significa che avremo pure serie difficoltà a essere considerati europei secondo i parametri di convergenza della moneta unica, ma quanto al livello impositivo il paese è decisamente nella pattuglia d’avanguardia. E qui viene naturale dire che sembra di assistere a una fondamentale trovata della Nemesi, perché se il paese degli evasori e della furbizia sociale di massa si ritrova salassato, tutto questo assume davvero l’aspetto di una vendetta della realtà contro la fantasia, di una ritorsione della burocrazia, dei moduli, delle esazioni contro la sperimentata riluttanza a pagare il dovuto. Erodo, occulto, svicolo Ma dove sono gli evasori? C’è innanzitutto un problema di psicologia collettiva. Nessuno, infatti, accetta questa qualifica, neanche l’evasore più efferato. L’evasore comune, quello che sottrae al fisco una certa quota del proprio reddito sa benissimo di non essere in regola, ma concepisce la propria infrazione alle norme comuni come un meccanismo di autodifesa. È uno schema infallibile e autoassolutorio: non pago le tasse, o non le pago tutte, perché lo Stato è troppo esoso. Se la pressione fiscale non fosse jugulatoria anch’io verserei il dovuto, senza tanti lamenti. In attesa del migliore dei mondi possibili, ci si arrangia. Anche perché la defezione sociale di massa rispetto alle regole può invocare numerosissime giustificazioni e attenuanti. Perbacco: una società ordinata prevede l’evasione fiscale come un’eccezione, un fenomeno residuale o interstiziale. Non è forse vero che nei paesi europei con cui stiamo facendo l’abitudine a confrontarci, la Francia, la Germania, l’Inghilterra, mostrano quote di evasione sostanzialmente irrilevanti? Cinque, sette, massimo diecimila miliardi di imposte bruciate. Mentre qui da noi uno dei massimi esperti del settore, Giulio Tremonti, autore qualche anno fa del fortunato pamphlet Le cento tasse degli italiani, stima l’evasione in 250 mila miliardi di reddito imponibile. Quindi uno dei principali meccanismi di giustificazione pubblica e privata è il seguente: io non pago, è vero. Evado, erodo, occulto, svicolo. Ma se cessasse questo scandalo dell’evasione diffusa, se pagassero tutti e soprattutto i ricchi, anch’io farei il mio dovere. Pagheremmo meno, pagheremmo tutti, e pagherei anch’io. Purtroppo, come risulta chiarissimo, non esiste una convenzione civica che sanzioni il contribuente infedele e lo esponga alla riprovazione pubblica. Esiste la possibilità dell’invidia tributaria, da praticare con apposito numero telefonico per la delazione fiscale, ma nella pratica quotidiana si assiste piuttosto a pensose collusioni in cui chi vuole farsi pagare in nero cerca la complicità del cliente e fatalmente la trova ai danni dell’Iva. Non c’è insomma un decalogo condiviso in cui il pagamento delle tasse è sinonimo di cittadinanza. Luigi Meneghello, l’autore di Libera nos a Malo, ha dato un icastico esempio di questa concezione italiana raccontando il rigoroso codice d’onore della provincia profonda negli anni Trenta: «Noi non abbiamo mai rubato niente a nessuno. Mai. Tranne naturalmente alle grandi aziende e allo Stato, ma questo non conta, come sanno tutti». Solo che lo Stato, nel frattempo, ha imparato a vendicarsi. Non riesce a riscuotere, malgrado l’attività dei circa 130 mila dipendenti (civili e militari) del ministero delle finanze, e nonostante l’impegno degli ispettori, le irruzioni in azienda della Guardia di finanza, i controlli a tappeto sulle categorie professionali, la verifica degli scontrini e delle ricevute fiscali. E allora ha elaborato un complesso sistema di rappresaglia, in genere preventiva: cioè un insieme di adempimenti di spaventosa complicazione, fitto di scadenze, moduli, passaggi burocratici. Ha scritto uno specialista, Raffaello Lupi: «Gli adempimenti complessi e i formalismi inutili si sono stratificati in particolare sulle imprese e i professionisti. La riforma del 1973 estese infatti anche ad artigiani e commercianti un modello contabile adatto solo alla grande industria. Milioni di microimprese a conduzione familiare, basate prevalentemente sul lavoro del titolare, devono sobbarcarsi conti, sottoconti, libri e registri, obblighi di ritenute, contabilità ordinarie come quelle della Fiat». Tutto questo castello di carta sembrerebbe non servire a nulla, se non a gettare nell’angoscia i contribuenti e a fare lavorare uffici e commercialisti. È come se la macchina statale riconoscesse l’impossibilità di fare pagare le tasse e come ritorsione scegliesse di rovinare la vita a tutti, evasori e tartassati. Ma sotto un’altra luce la massa stratificata dei documenti e delle procedure fiscali è un bene, almeno perché confonde l’entità complessiva del prelievo: lo sminuzza, lo parcellizza, lo differenzia. Così moltiplicate e segmentate le tasse danno più fastidio ma danno l’illusione di fare meno male. Anzi, si potrebbe sostenere per paradosso che proprio la farraginosità del sistema tributario è uno dei pochi motivi che rendono tollerabile il pagamento delle tasse: se invece si avesse una idea chiara e distinta di quanto si paga, e si misurasse di conseguenza lo squilibrio fra ciò che si dà e ciò che si riceve, lo sforzo del pagamento sarebbe insostenibile. Ci vuole già un certo stoicismo per affidare alla banca il mandato di conguaglio del 740; stoicismo che diventerebbe autentico eroismo se il pagamento fosse davvero trasparente. In ogni caso non bisogna dimenticare che lo Stato, alla fine, perdona. Prima minaccia «manette agli evasori», prepara minimum tax e redditometri, fa la faccia feroce per «stanare» gli evasori, poi passa al condono, che talvolta è «tombale», proprio nel senso che ci si mette una pietra sopra. È per questa incertezza, per questa eterna volatile mutevolezza, che sul tema fiscale appaiono continuamente idee, spesso balzane o chimeriche, leggende metropolitane spacciate per quintessenza della verità, verità parziali spacciate per verità totali. Ad esempio l’idea imperniata sulla mitologica «curva di Laffer», l’economista adottato a suo tempo da Ronald Reagan e oggi semidimenticato, secondo cui l’aumento eccessivo della pressione fiscale provoca un rallentamento tendenziale della crescita, e che è stata interpretata nel senso piuttosto entusiastico che se si abbassano le aliquote aumenta il gettito (e quindi allo governo ridurre le tasse conviene). Oppure l’idea della flat tax, cioè l’interruzione della progressività delle aliquote, che fu lanciata anche in Italia prima delle elezioni del 1994 da Antonio Martino. Ma queste sono idee «di destra». Perché la destra non ama le tasse e ha una formidabile capacità di escogitare soluzioni per pagarne meno, soluzioni che forse potrebbero funzionare in fasi di boom economico, ma che nessuno oserebbe applicare in tempi di crescita lenta. Invece la sinistra ama le tasse. E non solo Fausto Bertinotti, che per una patrimoniale e un’imposta sui Bot darebbe tutto. A sinistra, quando si era di buon umore, si pensava che il capitalismo è l’agnello che va non scorticato, no, ma tosato sì, come ripetevano Ugo La Malfa e Olof Palme (ma l’analogia risalirebbe addirittura a Svetonio, nelle Vite dei dodici Cesari: «Boni pastori esse, tondere pecus, non deglubere»). In ogni caso di tosatura si tratta, e la pecora tosata rimane nuda, sgambettante ma un po’ infreddolita. Un santo protettore Bisogna però dire che negli ultimi tempi enunciare in un discorso politico la parola «tasse» è diventato tabù. Ricordate George Bush? «Leggete le mie labbra: niente tasse in più». Poi dovette aumentarle e pagò la bugia con la trombatura. È per questo che tutti oggi si preoccupano di far sapere che le manovre correttive non contengono nuove tasse. La tassa diventa più pudicamente «contributo», per l’Europa o di solidarietà. Parola che sembra alludere a qualcosa di volontario, o comunque di sottomesso o rassegnato. D’altra parte il fisco in passato è stato associato a una dimensione quasi religiosa: Ernst Kantorowicz ha dedicato pagine fondamentali al paragone fra Christus e fiscus elaborato dai giuristi medievali. Dev’essere per un oscuro ricordo di questa sacralità delle tasse che nel suo recente Manuale di sopravvivenza a uso degli italiani onesti (Rizzoli), Sergio Ricossa invoca per il contribuente italiano un miracolo. E individua anche il possibile santo protettore dei tartassati, san Francesco da Paola, che nel XV secolo «osò recarsi dritto dritto dal re di Napoli. Era il re, verso i contribuenti, un vero mascalzone: guarda caso. San Francesco da Paola lo prese per la manica con la mano sinistra, e con la destra gli dimosrò quanto mascalzone fosse. Strizzò un pugno di monete con l’effigie del re, ne fece colare sangue, e con voce tonante disse al monarca atterrito: "Questo è sangue dei contribuenti"».

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