gli articoli LA STAMPA/

BERTINOTTI IERI, OGGI E DOMANI

10.04.1997

Dunque Rifondazione comunista ha condotto una battaglia aspra, durissima, solitaria. E più o meno l’ha vinta, se per vincere si intende non cedere nel braccio di ferro con l’Ulivo. Solo che questa vittoria lascia il campo pieno di macerie. Il suo carissimo prezzo infatti è la disintegrazione della maggioranza di governo, e non solo: con la sua dissociazione dall’impegno in Albania, Fausto Bertinotti ha consentito alle «destre», come le chiama lui, di presentarsi come un’opposizione responsabile, portatrici del soccorso moderato a un governo che stava rischiando di esporsi a una spaventosa figuraccia internazionale. Viene da chiedersi quindi per quale oscura ragione Rifondazione comunista ha scelto questa operazione apparentemente suicida e perché l’ha perseguita fino in fondo, incurante di mettere allo scoperto tutta la fragilità dell’esperienza politica di centrosinistra. Bertinotti strappava applausi quando faceva danzare a comando il governo, ma dovrebbe sapere che se ammazza l’orso priva tutti dello spettacolo, anche se stesso. Invocare alte ragioni ideali, di testimonianza, di tradizione politica non sembra particolarmente convincente. Nel nome delle idee e dei valori potevano essere praticate forme più morbide di differenziazione, senza giungere alla rottura. Bertinotti e Cossutta quindi devono essersi convinti che si stava giocando una partita politica decisiva, che investiva la sopravvivenza stessa del loro partito. Lo si può desumere con facilità dalle dichiarazioni del segretario di Rifondazione: «Hanno provato a spezzarci la schiena e poi la cosa gli è scappata di mano». Il che significa esattamente ciò che appare, e cioè che l’incompatibilità tra i due spezzoni della sinistra postcomunista, il Pds e Rifondazione, è giunta a un livello insostenibile. D’Alema definisce gli atteggiamenti di Bertinotti «narcisimo, immaturità politica, cinismo elettoralistico». Tradotto senza coloriture moralistiche tutto ciò equivale a una dichiarazione di guerra politica. Nel Pds si è ormai affermata l’idea che Rifondazione comunista è il nemico, o comunque è un concorrente con cui non ci si può accordare e che quindi va spinto al margine del mercato politico. Per questo, prima ancora di cercare di capire quali sono le possibilità residue di ricomposizione dell’alleanza con l’Ulivo, conviene mettere a fuoco quali saranno i futuri punti di crisi su cui, passata la tempesta del voto sulla missione in Albania e rappezzata alla meglio la coalizione, la maggioranza potrebbe di nuovo saltare per aria. Le valutazioni correnti indicano come terreno minato tutta l’area designata della ristrutturazione dello stato sociale. Ma per quanto le pensioni e la sanità rappresentino argomenti su cui Bertinotti sa produrre straordinarie prestazioni retoriche, il welfare è anche un tema che si presta al negoziato. Bisogna anche ricordare che Rifondazione comunista è anti-maastrichtiana e favorevole a politiche espansive basate sulla spesa pubblica, ma nondimeno ha contribuito ad approvare le misure «monetariste» di riaggiustamento finanziario del governo Prodi-Ciampi. Sullo stato sociale, pertanto, Bertinotti può trattare, e può cercare di condurre un negoziato per tutelare il più possibile i ceti che intende rappresentare. Occorre allora cercare altrove il luogo in cui si annida una minaccia insopportabile per Rifondazione. Questo luogo, non dovrebbe essere un mistero, è la Commissione bicamerale. È nella Bicamerale che possono prendere forma progetti di razionalizzazione del sistema politico intollerabili per i neocomunisti. È nel combinato della forma di governo con il sistema elettorale che si può nascondere l’insidia mortale per Bertinotti. E si capisce: l’obiettivo politico che D’Alema, segretario del Pds e presidente della Bicamerale, deve perseguire è la stabilizzazione del bipolarismo, ma soprattutto l’abbattimento del potere di veto e della rendita politica di Bertinotti. Quest’ultimo non ha avuto esitazioni, come si è visto, a silurare il primo governo con la sinistra al potere. Figurarsi pertanto se avrà remore a colpire la Bicamerale e le riforme istituzionali, cioè un bersaglio molto più domestico, molto meno internazionale, molto più «freddo» che non la tragedia albanese. Bertinotti è in una posizione di massima forza e nello stesso tempo di massima debolezza. Ha avuto un enorme potere di veto e di condizionamento sul governo attuale, ma dovrebbe anche sapere che questo potere può essere azzerato da uno sbrigativo accordo fra D’Alema e Berlusconi. Su questa striminzita terra di nessuno fra ricatti simmetrici si basano le ultime possibilità di sopravvivenza del governo Prodi. Ma si misura anche la dimensione politica di Bertinotti e di Rifondazione, che dovranno decidere se mettere a profitto il loro potere per influenzare e orientare il governo, oppure giocare fino in fondo il ruolo di forza «irresponsabile», capacissima di mandare all’aria un governo perché non è abbastanza di sinistra e contribuire alla vittoria elettorale della destra per poter fare una vivacissima, ideologicamente elegante ed esteticamente impeccabile opposizione.

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