gli articoli LA STAMPA/

CATTOLICI, LA RELIQUIA DEL "FATTORE C"

30.04.1997
SOCIETA' E CULTURA
DISCUSSIONE. Sono ancora centrali nella nostra politica? Le tesi di Galli della Loggia e Rumi su "Liberal"

A leggere sull’ultimo numero di Liberal le pagine dedicate ai «cattolici», e in particolare gli articoli di Ernesto Galli della Loggia e di Giorgio Rumi, viene voglia di chiedersi per quale ragione il mondo cattolico e le sue proiezioni politiche continuano a rivestire una posizione così centrale per gli intellettuali italiani. Per i cattolici (cattolico-liberali) come Rumi si può capire a intuito; per i laici come Galli della Loggia, è un po’ meno intuitivo. O meglio: si capisce il rilievo che ancora assume agli occhi di uno storico la ricostruzione della vicenda religiosa, culturale, politica attraversata da un paese cattolico. Meno evidente invece, come proverò a commentare, è l’attualità di un discorso pubblico attraverso il quale il cattolicesimo italiano possa trovare uno sbocco politico. Galli della Loggia muove dalla premessa che la tradizione «cattolico-democratica» fondata sul Concilio Vaticano II si sia esaurita. Il solidarismo universalistico, lo «sviluppismo» economico basato sull’intervento statale, la democrazia come sfondo della lunga marcia delle masse verso la conquista dei diritti, insomma, tutto ciò che ha definito la posizione «progressista» del cattolicesimo italiano è entrato in crisi con il mutare delle condizioni storiche che avevano favorito ed espresso la svolta conciliare. Da un lato, seguendo la lettera del Concilio, la Chiesa sceglie il «dialogo con il mondo», una concezione «mondialista», collocandosi in un quadro dominato dalle grandi contraddizioni Nord/Sud dietro il quale la caratterizzazione nazionale tendeva inevitabilmente a dileguare; sul versante interno, alla «vulgata» conciliare se n’era affiancata un’altra, basata sulla lettera della Costituzione. C’era un vizio d’astrattezza? È probabile. Si nota, sottolinea Galli della Loggia, molta enfasi planetaria e pochissima sensibilità per le specifiche condizioni italiane; rispetto al nostro paese, un’accentuazione straordinaria dello «stato» ai danni della «nazione»; e il tutto marcato da un tratto politico-culturale progressista, concepito come l’unico possibile. Secondo l’autore nasce di qui la subalternità se non la scomparsa della tradizione «guelfa»: che sarebbe da interpretare in primo luogo nel senso dell’inestricabilità dell’immagine cristiana e cattolica dall’identità nazionale, e poi nel senso del popolarismo sturziano («l’idea cioè che la funzione essenziale dei partiti, del potere politico e dello stato, debba essere più che altro una funzione di impulso e di garanzia alla libera organizzazione dal basso, alla volontà/capacità dei singoli e delle comunità di associarsi e di dar vita a strutture collettive vitali, perché calate nell’effettività dei bisogni»). E qui ci siamo: la sintesi cattoliberale di Sturzo è un tema classico per Liberal e naturalmente anche per Galli della Loggia, che ci si è dedicato spesso (a partire da un suggestivo saggio pubblicato sul Mulino nel 1993, Liberali, che non hanno saputo dirsi cristiani, in cui criticava la separatezza del cattolicesimo e del liberalismo, e auspicava quel nuovo incontro fra le due culture). Si tratta però, come si diceva, di osservare se oggi questa sintesi ha effettivamente un rilievo strategico nella società italiana. Perché se è così, è utile anche lo sforzo di ridefinire a contrario il cattolicesimo liberale, come fa Rumi nel suo contributo sullo «statalismo teocratico», sottoponendo a una critica oggettiva e severa alcune teorizzazioni di Dossetti: il «finalismo dello stato», a cui dovrebbero sottomettersi le realtà «sezionali» della società, e poi la scelta per la «felicità» dei cittadini contro la «libertà» individualistica, e infine la strana soluzione dossettiana del «consiglio dei tecnici», incaricato di tradurre in termini di governo senza troppe discussioni il finalismo suddetto. Ma a parte il fatto che il dossettismo è diventato, in una vulgata di segno opposto, la somma di ogni perversità antiliberale, e serve ormai per sottolineare tutti gli attentati veri o presunti al canone del liberal-liberismo, dai flirt di Prodi con Bertinotti agli anatemi di Scalfaro contro «l’Europa dei ragionieri», ora è il caso di chiudere il cerchio e di provare a rispondere sulle ragioni per cui, ancora oggi, il cattolicesimo sarebbe comunque uno dei problemi principali sulla strada della transizione politica italiana. Galli della Loggia conclude il suo articolo sostenendo che, nella crisi del binomio Concilio/Costituzione, la subalternità o la scomparsa del pensiero cattolico liberale hanno lasciato la Chiesa senza gli strumenti per poter reinterpretare un ruolo egemonico. E legge nell’imprecisato «progetto culturale» lanciato dal presidente della Cei Camillo Ruini come risposta alla «dissociazione tra Vangelo e cultura» un implicito giudizio negativo sui risultati dell’esperienza conciliare. Buona conclusione, per quanto riguarda la Chiesa. Ma sembra di capire, alla fine dei conti, che il problema non è solo ecclesiale ma politico, e nazionale. L’era dell’astratto progressismo cattolico è finita, e dovrebbe cominciare quella di un realistico cattolicesimo liberale. Ma se invece il problema, anziché politico o nazionale, fosse semplicemente in via di superamento? Se cioè il ritmo della secolarizzazione avesse ridotto la questione cattolica a una questione che riguarda i cattolici solo in quanto minoranza sociale, con pochi e prevedibili riflessi politici? Potrebbe darsi insomma che ai fini di una nuova sintesi politica il fattore C, come cattolicesimo, liberale o sociale che si voglia, fosse una reliquia da esporre e da agitare retoricamente nelle occasioni che contano, ma con pochissime valenze progettuali e con una rilevanza modesta sulla dinamica politica. Dopo di che, forse non resterebbero al nostro paese troppe riserve di valori da cui attingere ispirazioni; ma in compenso la politica dovrebbe produrre elaborazioni per conto suo: e forse, chissà, ne guadagnerebbe la razionalità.

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