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PARTITA SENZA TRIONFATORI

12.05.1997

Torino e Milano, città simbolo di queste elezioni, sembrano aver voluto tenere fede al loro ruolo di avanguardie metropolitane del paese, intensificando il valore del loro voto con un risultato sul filo del rasoio. In base alle prime proiezioni, nel capoluogo lombardo il candidato di centrodestra Albertini è in vantaggio; a Torino c’è una parità che sembra lasciare migliori chances al candidato dell’Ulivo Castellani. Se si unisce a questa situazione il risultato di Trieste, favorevole al centrosinistra, e si considera la vicinanza numerica fra gli schieramenti, verrebbe da dire che se nelle elezioni esistesse una conclusione in pareggio, oggi potremmo parlare non implausibilmente di una partita nulla. O anche di un’Italia divisa in due, e comunque senza veri vincitori. Ma al di là di chi ha vinto, dei candidati che sono saliti sulla poltrona di sindaco e delle alleanze che sono riuscite a conquistare i palazzi comunali, l’unica interpretazione possibile, in questo momento, è che Roma almeno per ora non dovrebbe venire influenzata dai risultati delle due capitali del Nord. Il meccanismo del ballottaggio infatti ha forzato la situazione quantitativa producendo un vincitore politico, ma non dà un’indicazione netta da una parte o dall’altra, a favore o contro il governo. Quando gli schieramenti rivaleggiano sul filo del cinquanta per cento non è possibile trarre indicazioni generali sull’evoluzione politica nazionale. Occorrerà attendere un quadro generale del voto amministrativo, per avere il polso effettivo della situazione politica. Ma nel frattempo si possono mettere a fuoco alcuni aspetti che hanno reso così incerto il confronto di ieri. Sia a Torino sia a Milano si è assistito a una consistente rimonta del centrosinistra. Un recupero prevedibile a Torino, dove si sapeva che l’apparentamento dell’Ulivo con Rifondazione comunista avrebbe portato più voti di quanti ne avrebbe fatti perdere fra i moderati delusi; ma non così scontato a Milano, almeno nelle dimensioni, dato che al primo turno lo svantaggio di Fumagalli rispetto ad Albertini era molto pronunciato (oltre 13 punti percentuali), e il candidato di centrosinistra aveva fermamente rifiutato l’ipotesi dell’apparentamento con Rifondazione comunista. Si dovrebbe pensare quindi che la formula a doppio turno ha mostrato la tradizionale capacità della sinistra di mobilitarsi e di sostenere il candidato meno lontano rispetto alla propria ispirazioni politiche, una capacità superiore a quelle dell’ala moderata dello schieramento politico. Dicendo questo, in realtà, non si fa altro che sottolineare la persistente importanza del voto «ideologico», basato sull’appartenenza o su un rifiuto, con una certa indifferenza rispetto ai programmi. Ma si tratta di un processo per diversi aspetti inevitabile, che ha coinvolto anche la Lega, che continua a non essere completamente riducibile a una prospettiva di destra (fra l’altro, a Milano il voto non leghista che al primo turno si era indirizzato su Formentini deve avere preso al ballottaggio la strada di Fumagalli). È possibile che sulla base della prova «asimmetrica» di Torino e Milano si vogliano trarre conclusioni definitive sulla congruità per l’Ulivo di un legame più stretto con Rifondazione. Ma non è questo il punto fondamentale. Il punto è che a Roma il governo vede passare questo turno elettorale senza grandi scossoni. Le ripercussioni non dovrebbero essere significative. La parola ritorna alla politica, nel senso che la maggioranza deve trovare nel proprio ambito la capacità di rispondere ai compiti che l’attendono; e l’opposizione deve rinunciare alle spallate e alle scorciatoie.

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