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SINISTRA REVIVAL IN GRIGIO

31.05.1997
SOCIETA' E CULTURA
Da Blair a Jospin, ritorna la grande desaparecida: nelle vesti di un "centro radicale" moderato in economia, innovatore nella cultura

Un venticello leggero soffia sull’Europa: una brezzolina, un refolo, e nell’aria si risente anche il sospiro di una parola che sembrava cancellata dalla moda vigente: sinistra, sinistra. Sarà il successo della campagna-show di Tony Blair in Gran Bretagna, sarà lo stupore internazionale per l’inaspettata affermazione di Lionel Jospin e dei suoi alleati al primo turno delle elezioni legislative francesi, ma all’improvviso si direbbe che il mood abbia cambiato di segno. Fin qui dominava la convinzione che le uniche soluzioni politico-economiche adatte alla riconversione delle società «globalizzate», spalancate al mercato mondiale e misurate dal loro coefficiente di competitività, fossero le formule predisposte da destra: cioè dal filone liberal-liberista cresciuto sulle elaborazioni monetariste della Scuola di Chicago, e più in generale attestate su criteri di politica economica basati sulla flessibilità dell’occupazione, sull’urgenza di una disinflazione senza sconti, sulla riduzione della spesa necessaria al mantenimento dello stato sociale. Ci si accorge invece adesso che la grande desaparecida, la sinistra, non era scomparsa affatto. E non solo perché dodici dei quindici paesi dell’Unione europea sono gestiti da governi e coalizioni di sinistra, ma perché l’esperienza inglese e soprattutto il recentissimo controshock francese sembrano dimostrare la persistenza di una psicologia collettiva che tende a sottrarsi agli imperativi del «pensiero unico» neoconservatore. Meno tasse e meno Stato? Meno regole? Ma se anche un grande economista come Robert Solow dice che la flessibilità di per sé non aumenta l’occupazione. Ed è certamente vero che il New Labour di Blair ha dovuto mutuare dalla destra le mappe della politica economica: tant’è che i laboristi inglesi hanno dovuto evocare un concetto, quello di «centro radicale», che sposta sensibilmente i programmi politici dalla sfera economica alla cultura, alla scuola, alla formazione; ma ciò che colpisce, soprattutto in Francia, è un revival di sinistra che avviene spontaneamente nell’elettorato, fra i cittadini-elettori ben prima che in seguito all’azione dei partiti. Insomma, il successo socialista in Francia non appare dovuto alla capacità di proposta politica del partito socialista, e men che meno dei comunisti: ha il volto invece di una rivolta elettorale contro la durezza imposta dall’obiettivo del controllo del deficit. Uno dei manifesti della reazione contro il «pensiero unico» si deve all’economista parigino Jean-Paul Fitoussi (Le débat interdit), che consiste in una stringente requisitoria contro la «tirannia finanziaria» e che reinterpreta polemicamente in chiave neokeynesiana i problemi socioeconomici dell’Europa contemporanea: mostrando – come ha scritto Marcello De Cecco – «quanto sia frusto il tessuto teorico del liberismo estremista» e smontandone i luoghi comuni. Ma al di là di posizioni intellettuali simili, che muovono dall’esplicito intento di spezzare il cerchio stregato dell’ideologismo neoliberista, si direbbe proprio che dietro la riapparizione della sinistra ci sia la crescente percezione della fatica imposta dai programmi politici della destra, specialmente quando il rigore finanziario e la preminenza assegnata al mercato non riescono a trasmettere un impulso dinamico all’economia, sicché i modesti ritmi di crescita non consentono di abbattere la quota della disoccupazione. Potrebbe essere quindi che la virata a sinistra sia un semplice riflesso meccanico dell’opinione pubblica. In Italia il centrosinistra è al governo senza essere riuscito a definire un programma vincolante; in Gran Bretagna il New Labour si è mimetizzato come partito elegantemente moderato; in Francia il partito socialista non godeva di standard qualitativi credibili, screditato com’era dagli scandali dell’ultima fase mitterrandiana. E dunque il ritorno della sinistra sembrerebbe avvenire almeno in parte come pura fisiologia democratica, vale a dire secondo processi di alternanza sostanzialmente sganciati dalla credibilità delle sue proposte politiche. Questo può perlomeno fare apprezzare il funzionamento del sistema maggioritario, che in Inghilterra e in Francia proietta direttamente sul governo le preferenze o i risentimenti degli elettori (anche se un sociologo prestigioso come Michel Crozier contesta puntigliosamente l’efficienza della democrazia maggioritaria francese, sottolineando una distanza a suo giudizio incolmabile fra il potere di decisione detenuto dal governo e la non-partecipazione della società, una frattura che predispone le condizioni per risposte conflittuali da parte dei cittadini come unica chance di dialettica con il potere politico). Ma i meccanismi elettorali non dicono molto dei sentimenti dell’elettorato. Per capirne qualcosa occorre invece approfondire le paure, le angosce, le insicurezze di società che si trovano di fronte ansie che sembravano dimenticate. «La crisi dell’occupazione che vivono le economie europee è la più grave dagli anni Trenta», dice Fitoussi. Le «placche» tettoniche della globalizzazione di cui parla Lester C. Thurow nel saggio Il futuro del capitalismo accerchiano l’Europa minacciando di stritolarla. Di fronte a un problema d’epoca, le sinistre contemporanee non hanno soluzioni in grado di staccarsi dal contingente. A parte la soluzione olandese della «flessibilità progressista», in cui la sinistra è riuscita a redistribuire un decremento dei livelli di reddito individuali compensando questa riduzione con l’aumento dell’occupazione, i partiti della gauche europea in genere non hanno altra scelta che offrire sul mercato politico «più moderazione» rispetto ai loro competitori di destra. Ridefinizione dello stato sociale, ma in termini di razionalizzazione equitativa più che di tagli. Via libera alla concorrenza e al mercato, ma esercitando qualche diffusa resistenza alla deregolazione. Flessibilizzazione del lavoro, ma di concerto o comunque senza scontri con le «coalizioni redistributive» rappresentate dai sindacati. Insomma, come ha scritto Michele Salvati non si vede più traccia di un «programma massimo» della sinistra, se non nelle sue frange per l’appunto massimaliste: la convivenza con la «rivoluzione copernicana» dell’unificazione monetaria non lascia spazio a fantasmagorie espansive. Quello che si registra è allora il ritorno di una sinistra del compromesso; perduta la strada dell’utopia, resta praticabile solo una posizione intermedia, che tuttavia non è ancora riuscita a consolidarsi come una proposta alternativa coerente. Eppure può darsi che proprio questo contenuto compromissorio rappresenti oggi la maggiore risorsa della sinistra. È una risorsa di retroguardia? Di sicuro non è una base su cui produrre spinte ideali o emotive. La sinistra si autopromuove come una forza difensiva, senza avere la forza né la faccia di opporsi al mercato e senza indicare obiettivi universali mobilitanti. Aggredita per quasi un ventennio dall’offensiva neoliberista, risponde con un proprio e specifico senso comune, che costituisce l’ultima sua risonanza ideologica. In quel senso comune convivono un tanto di protezione sociale residua, di regolazione pubblica e di interventismo statale, di rallentamento controllato dei processi competitivi e dei loro effetti. Ai colletti bianchi impoveriti dall’acuirsi delle diseguaglianze, al mondo del lavoro tecnologizzato, segmentato e stressato dalle modalità della produzione postfordista, all’occupazione messa in turbolenza dalla scomposizione delle professioni e dei mestieri, la sinistra europea offre qualche corrimano a cui aggrapparsi. Se la destra liberista si mostra indifferente al problema della disuguaglianza (preoccupandosi tutt’al più della povertà), la sinistra prospetta invece una terapia moderatrice. Propone in sostanza di perdere qualche punto in slancio e mobilità per riguadagnarlo sul piano della redistribuzione. Dire quale sia il futuro di questa «sinistra in grigio» è impossibile. L’invecchiamento della popolazione ha posto in discussione la solidarietà fra le generazioni (l’imminente pamphlet che Nicola Rossi, consulente di D’Alema, ha scritto per il Mulino si chiama «Meno ai padri, più ai figli», con un titolo che esemplifica immediatamente la necessità di rovesciare un rapporto sbilanciato a favore della componente anziana della società). L’impatto crescente dell’immigrazione ha minato la possibilità di sviluppare coerenti politiche in termini di diritti civili. Sul piano culturale la sinistra è in difficoltà, poiché non ha più teoremi da cui dedurre corollari. I suoi tradizionali principi di fondo, ad esempio sull’integrazione dei nuovi venuti, si scontrano con le convenienze particolari, quelle su cui ci si gioca sul territorio il consenso dei cittadini. Per questo la sinistra appare calata nel presente e permeata di presente: come se fosse diventata, se il paragone non scandalizza, una specie di grande democrazia cristiana laicizzata e postmoderna, preoccupata di smussare gli spigoli della modernizzazione, legata a filo doppio a quell’idea di «economia sociale di mercato» – concertata, neocorporativa, fondata sulla prestazione di lungo periodo – che è stata messa in crisi dall’impraticabilità delle politiche keynesiane sanzionata a Maastricht. Se ieri guardava all’approdo di un mondo nuovo, oggi vive nella transizione. Non la ostacola, perché non può; non la guida, perché non sa. Ci abita dentro, e da lì dentro offre qualche difesa a chi si sente minacciato. Già, ma una difesa, il male minore, può diventare un’alternativa, un’opportunità, una speranza?

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