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L’INTESA IMPOSSIBILE

08.06.1997

Come si fa a rimettere insieme i frammenti di un puzzle che è saltato per aria? Il voto della Lega di mercoledì scorso ha distrutto il disegno che era stato pazientemente costruito pezzo per pezzo. Mancavano le ultime trattative, le questioni di dettaglio, e poi D’Alema avrebbe potuto annunciare il fatidico «habemus premier». La mossa di Bossi, fredda, scientificamente feroce, ha individuato il punto debole dell’accordo e lo ha mandato fragorosamente in frantumi. Ora il processo di riforma è entrato in piena turbolenza. Incassata fortunosamente la posta del semipresidenzialismo, Gianfranco Fini ha emanato un messaggio dei suoi, minacciando di abbandonare la Bicamerale se si tornasse indietro. D’Alema si è avvinghiato al sistema elettorale a doppio turno, considerandolo la premessa necessaria per un sistema di tipo semipresidenziale, malgrado che Popolari e Rifondazione comunista (come del resto i cespugli postdemocristiani del Polo) non ne vogliano assolutamente sapere, né del presidenzialismo né del doppio turno. Ci fosse una posizione di forza, si potrebbe pensare che una decisione, un atto sovrano, un accordo fra protagonisti potrebbe sciogliere lo stallo attuale. Ma da un lato Fini e il Polo sanno bene che, chiusa la Bicamerale il 30 giugno, la soluzione semipresidenziale non avrebbe una maggioranza in Parlamento, soprattutto se venisse agitata come un’arma di propaganda politica. E dall’altro lato il ritorno alla formula del premierato, come ha suggerito ieri Veltroni per «ricominciare da capo», come se non fosse capitato nessun incidente, ha il volto suggestivo della completa impraticabilità politica. Allo stato delle cose, ci sarebbe solo un mezzo per sbancare il tavolo, tagliare i veti, superare le contrapposizioni. Occorrerebbe cioè che D’Alema stipulasse uno spettacolare accordo a tre, con Berlusconi e Fini, per procedere effettivamente verso un modello istituzionale ed elettorale di tipo francese. Ma questa è un’ipotesi astratta. Per essere perseguita, D’Alema dovrebbe in un colpo solo dichiarare la messa in liquidazione dell’Ulivo come esperienza politica, e affrontare ripercussioni potenzialmente mortali per l’esecutivo. Sacrificare il governo per guadagnarsi le stimmate dell’uomo di Stato sembra una missione troppo avventurosa per essere realisticamente credibile. L’unico aspetto di queste vicende che sembra fuori discussione è che la Bicamerale non può fallire. E non solo in quanto un eventuale fallimento sarebbe disastroso per la statura politica di D’Alema, ma soprattutto perché le aspettative deluse di riforma aprirebbero un vuoto politico-istituzionale che non si saprebbe come riempire. Con l’assemblea costituente? È chiaro infatti che lo scacco della Commissione per le riforme scatenerebbe nuovamente la richiesta della «riconsegna della sovranità al popolo». Ma se fino a ieri la richiesta della Costituente era una delle armi polemiche del Polo e uno dei maggiori timori dell’Ulivo, oggi anche dentro il centrodestra non c’è più l’attrazione precedente per un processo costituente fondato su elezioni popolari. Aleggia infatti la preoccupazione che l’insuccesso della Bicamerale darebbe spazio a nuove discese in campo, a esperimenti politici e personali che potrebbero movimentare e forse sconvolgere le file del Polo. Quel Di Pietro che dalla sua lontananza considera le riforme costituzionali uno strumento per fermare la sua carriera politica rappresenta una minaccia questa sì «plebiscitaria», un nuovo fattore di instabilità, di scomposizione, di sconvolgimento della politica italiana. E allora, come si fa a non fallire quando il fallimento sembra già scritto? C’è probabilmente una strada, molto classica, molto prudente, molto compromissoria, molto partitocratica. Si tratta di consegnare al Parlamento un progetto (inevitabilmente semipresidenziale, a questo punto) già in parte stemperato, in cui le funzioni del capo dello Stato configurino un ruolo più di garanzia che di titolarità effettiva del potere esecutivo, e nello stesso tempo predisporre le condizioni per una legge elettorale riproporzionalizzata, ad esempio un doppio turno basato sul premio di maggioranza. Per ora, tuttavia, si riesce a comprendere soltanto che il processo riformatore si sta allungando. La Bicamerale consegnerà al Parlamento un modello sostanzialmente «aperto», un insieme di indicazioni di tendenza, non una formula vincolante per le forze politiche e in grado di sottoporre la politica italiana a vincolanti assunzioni di responsabilità. Il prezzo per uscire dall’impasse è insomma una non-soluzione. Creata per risolvere dentro le stanze della politica la transizione istituzionale, la Bicamerale si rivelerà probabilmente un’altra tappa della transizione stessa. Il suo ruolo principale oggi consiste nell’evitare la propria bancarotta. Altre ambizioni, in questo momento, sarebbero velleitarie, e la politica del rinvio ha l’infallibile fascino di trasformare le delusioni di oggi nelle illusioni di domani. Ma forse, col tempo, ci si convincerà che per le riforme istituzionali l’errore più vistoso è stato scambiare la bellezza dei modelli con la realtà vera della politica, e che nel destino italiano c’è sempre e solo un compromesso.

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