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IL GIUDIZIO DI CHI SI E’ ASTENUTO

16.06.1997

Si può essere sicuri che se il quorum referendario fosse stato raggiunto la vittoria avrebbe avuto un trionfatore e molti padri. Invece la sconfitta resterà orfana: nessuno, salvo Marco Pannella, vorrà appropriarsi di quella minoranza disciplinata e volonterosa che ha compiuto il capolavoro di civismo di recarsi a votare, nonostante tutto. Nonostante il sole, il mare, il weekend, e soprattutto nonostante l’erraticità incomprensibile dei quesiti referendari sopravvissuti al vaglio della Corte costituzionale e proposti al giudizio dei cittadini. Questi referendum avrebbero avuto un significato se avessero contenuto la domanda sull’abrogazione della quota proporzionale nella legge elettorale; anzi, nel loro insieme, così come erano stati concepiti prima della selezione della Consulta, rappresentavano una deliberata spinta liberalizzatrice. Se ne poteva discutere la finalità, ma se ne capiva l’intento. Dopo i tagli della Corte costituzionale, sono rimasti quesiti frammentari e marginali, di non facile interpretazione, nulla comunque che potesse suscitare le emozioni politiche dell’opinione pubblica e coinvolgerla in una discussione partecipata. Per questo il voto di ieri è stato drammatizzato, da più parti e tardivamente, come se fosse un referendum sul referendum. Si è agitata infatti l’idea che sottraendosi al diritto di votare sarebbe uscita vincente e soddisfatta una nuova e camaleontica partitocrazia, pronta ad approfittare di questa sconfitta della sovranità popolare per annientare l’unico strumento di democrazia diretta esistente nel nostro ordinamento. È difficile sostenere un’opinione del genere. Perché in essa è implicita la convinzione che tutta la classe politica, senza troppe distinzioni di schieramento, tende a bloccare la situazione ordinamentale e legislativa opponendosi a qualsiasi cambiamento. Se questo fosse vero, significherebbe che tutto il processo di trasformazione della politica italiana (cominciato proprio con il referendum sulla preferenza unica nel 1991) è stato sostanzialmente inutile. Se si ammettesse che il sistema politico non si è autoriformato adeguatamente, anzi, che siamo in presenza di una controriforma partitocratica, l’offensiva referendaria nei termini in cui la sostiene Pannella sarebbe più che giustificata. In realtà abbiamo davanti a noi un sistema certamente incompleto, e ancora suscettibile di ampie razionalizzazioni, ma che è riuscito a esprimere prima una maggioranza e un governo di centrodestra e poi una maggioranza e un governo di centrosinistra. Questo per dire che faticosamente la formula funziona. Inoltre, con tutti i limiti che si possono attribuire all’esecutivo Prodi, bisogna considerare che in questo momento in Italia c’è un governo che sta applicando un programma politico. I referendum di ieri non contemplavano dilemmi di civiltà, bensì questioni tecniche che qualsiasi governo è in grado di risolvere facilmente. Se il governo in carica non le risolve, vuol dire che non figurano nella sua agenda di priorità. Di qui a pensare che invece siamo in presenza di un oscuro complotto del ceto politico per togliere la voce al popolo sovrano, ne corre. Si potrebbe piuttosto mettere a fuoco un aspetto più propriamente politico. Risulta infatti evidente che rispetto a questo appuntamento referendario, al di là delle sfumature specifiche e delle scelte sui singoli quesiti, c’era un atteggiamento di non celata simpatia da parte del Polo e di tendenziale ostilità da parte del centrosinistra (con ogni presa di posizione che intensificava quella sul fronte opposto, con automatismi quasi perfetti). Quindi i referendum di fatto si erano politicizzati: impropriamente, come al solito, ma si erano colorati di politica. E se ci fosse stata una partecipazione corale e liberatoria dei cittadini, sicuramente ne sarebbero state tratte conclusioni politiche. Ora invece la situazione torna alla casella in cui eravamo prima. Con una sottolineatura negativa, tuttavia. Vale a dire che il popolo è stato interpellato e il popolo stesso si è rifiutato di rispondere. Non è il caso di credere a chi, fin da oggi, sosterrà che si è trattato di una congiura della disinformazione gestita dall’establishment; realisticamente converrà riconoscere che è stato un errore usare impropriamente i referendum, prima come arma totale di liberalizzazione e poi come presunta mobilitazione democratica contro l’arroganza del potere consolidato. Forse è vero che i referendum escono ridimensionati da questa prova. Tuttavia non muore l’istituto del referendum e non muore la democrazia. Erano stati ridimensionati anche nel 1990, con il quorum mancato sulla caccia e sui pesticidi. Ma ridimensionati, per l’appunto, significa ricondotti alla loro dimensione: che è quella della scelta fra grandi alternative etiche, che non possono essere mediate dai partiti politici né essere decise dai governi. Altrimenti, come si è visto, i cittadini votano, cioè esprimono un giudizio, anche non votando. E allora, a proposito dell’astensionismo di ieri, si dirà ancora una volta che il popolo si è sbagliato, che è stato malamente imbrogliato, insomma, che non è stato in grado di decidere come invece doveva?

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