Fino a qualche settimana fa il sospetto che il governo e la maggioranza potessero occupare spazi indebiti e irrigidire il loro potere fino a configurare l’idea di un «regime» era più che altro un esercizio intellettuale, una specie di esorcismo critico preventivo. Negli ultimi giorni invece il sospetto si è tramutato in accusa divenendo il leitmotiv di Silvio Berlusconi e quindi, malgrado vari distinguo, del Polo. Ora, c’è da intendersi: regime è un termine sgradevole, in quanto attribuisce agli avversari politici la tendenza, se non l’esplicita volontà, ad approfittare a man salva di un ruolo istituzionale per ingigantire le proprie sfere di influenza e di controllo. È una parola che si porta dietro intonazioni illiberali e perfino echi autoritari. Insomma, è un’accusa grave, da non usare nella polemica politica spicciola. Perché se ci trovassimo davvero di fronte a un regime incipiente, sarebbero consigliabili modalità straordinarie di opposizione, mobilitazioni di massa, accese rivendicazioni di libertà. È questa la situazione che stiamo vivendo nel nostro paese? Sembra difficile rispondere di sì. Se il «regime» dovesse dipendere da un uso strumentale della giustizia, c’è da sottolineare che Berlusconi ha acuito la sua polemica contro i magistrati che lo indagano, fino a chiedersi se la sinistra sia «beneficiaria o mandante» delle Procure, ma occorre anche rilevare che sull’argomento i suoi stessi alleati sono molto più cauti. È più probabile invece che ciò che viene definito come regime sia invece semplicemente un governo che, risolta l’ultima crisi, in prospettiva promette di vivere a lungo, facendo svanire le illusioni dei governi tecnici o di larghe intese, e consegnando dunque l’opposizione al difficile, faticoso ruolo che dovrebbe essere tipico proprio della minoranza. In un sistema politico che è stato plasmato da una lunghissima epoca di crisi politiche finte, spartizioni risarcitorie, patteggiamenti compromissori, trovarsi chiaramente in minoranza, e con scarsissime possibilità di contrattare quote di potere con la maggioranza, significa affrontare una situazione disarmante: e tanto meno soddisfacente se si pensa che l’avventura politica di Berlusconi era nata all’insegna di una vocazione aziendale e populista, tesa cioè a realizzare al più presto, senza mediazioni, con metodi manageriali o padronali, la volontà attribuita alla «gente». C’è anche un altro aspetto, oggi, che rende particolarmente frustrante restare fuori dal circuito del governo: ed è che se effettivamente Prodi e Ciampi centrano la moneta unica, i possibili dividendi di un’europeizzazione dell’Italia andranno ad assoluto vantaggio di una sola parte politica: il calo dei tassi, un ritmo di crescita più elevato, eventuali riflessi positivi sull’occupazione, l’opportunità di riduzioni del carico fiscale avrebbero un’unica sigla, quella del centrosinistra. Diverso è il discorso se protestando contro il regime si allude piuttosto a comportamenti sbrigativi dei partiti di governo sul piano delle nomine e sull’occupazione di settori dell’economia pubblica. Le designazioni alla Rai, alla Stet, all’Iri, all’Enel, tanto per fare un esempio, hanno configurato un sistema selvatico di spoil system, sregolato quanto sbrigativo, prevedendo talvolta, con tipico stile neospartitorio, anche le concessioni all’opposizione. D’altra parte alle condizioni date il fenomeno è inevitabile: mentre non è costoso attribuire la presidenza delle commissioni parlamentari di garanzia all’opposizione, la nomina dei dirigenti pubblici, oltre alle qualità professionali, implica un rapporto fiduciario, che rende a prima vista sconsigliabile la cessione di queste posizioni a esponenti della parte avversa. Esiste quindi, di nuovo, una questione di regole, sulle quali il Polo potrebbe utilmente confrontarsi con il governo chiamandolo a misurarsi su una proposta, così come esiste anche la necessità di consegnare al più presto al mercato i segmenti di economia ancora in mano allo Stato per sottrarli alle tentazioni della feudalità politica (in questo senso il destino della privatizzaszione dell’Enel suscita più di una preoccupazione). Tuttavia il Polo dovrebbe mettere a fuoco anche un altro aspetto. Infatti è probabile che intorno alla maggioranza in via di progressiva stabilizzazione si stratifichino assetti più ampi di consenso come anche di compartecipazione al potere. Ormai il centrosinistra è uno «schieramento sistema», che si estende dal moderatismo di Di Pietro passando per Ciampi fino a Bertinotti. Chi vi cerca qualcosa, lo trova. È anche per questo che settori dell’economia, grandi centri di interesse, aree culturali sono e saranno soggetti all’attrazione ulivista. Proprio una concezione realistica della politica non può sottovalutare l’addensarsi di convenienze, collateralismi, semplici opportunismi: cioè una possibile crescita strisciante di un consenso inerziale che nel lungo andare assesta le posizioni e crea vincoli via via più significativi. Di fronte a una prospettiva del genere, che forse per l’opposizione è quella più inquietante, il Polo anziché gridare al regime dovrebbe domandarsi se ha una politica. Difficilmente capiterà infatti un’altra occasione in cui il rimescolamento di carte appariva così vicino. E dunque il centrodestra dovrebbe tentare in primo luogo di tenere una posizione: non sulle questioni di facciata ma nell’elaborazione di una iniziativa coerente, cercando di elaborare soluzioni e di proporle in Parlamento, influenzando e correggendo le impostazioni del governo, ingaggiando battaglie sui temi davvero significativi. Altrimenti, non sarà un regime, ma l’era dell’Ulivo potrebbe assomigliare curiosamente alle grandi durate di Margaret Thatcher o di Helmut Kohl: non capi di un regime ma portatori di una politica rimasta troppo a lungo senza alternative
17.10.1997