gli articoli LA STAMPA/

CONCERTAZIONI MACCHINOSE

31.10.1997

Sulla trattativa per la riforma delle pensioni cominciata a Roma fra governo e sindacati si proietta qualche ombra, lo strascico politico della crisi di governo e della sua ricomposizione a tempo scaduto. Malgrado le parole di soddisfazione e di rassicurazione spese da Prodi e D’Alema a ricucitura avvenuta, è piuttosto chiaro che i temi che hanno intessuto l’accordo con Rifondazione comunista non sono stati definiti con esattezza. Tanto sulla riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore quanto sulla riforma della previdenza il governo sembra rivendicare discrezionalità. Nella politica economica le grandezze numeriche sono fissate, ma il modo per conseguirle è tutt’altro che definito: ed è per questo che si avverte un’eco di ambiguità, dal momento che Prodi tende a interpretare in modo piuttosto elastico ciò che invece Bertinotti considera vincolante. Il fatto è che dire discrezionalità significa dire politica. La scena è resa complessa in primo luogo dalla necessità di trovare un accordo non insoddisfacente per il sindacato, in particolare la Cgil, che durante la crisi si è trovata drammaticamente allo scoperto in seguito alla rottura con cui Rifondazione comunista ha affondato il patto «socialdemocratico» del sindacato con il governo. Quindi si tratta di tratteggiare un complicatissimo schema per limare le pensioni di anzianità, costruendo un nuovo sistema contrattato nei particolari, entrando nel merito di distinzioni problematiche fra «operai ed equivalenti» e il resto della forza lavoro, cercando di ottenere il massimo di ciò che il sindacato può concedere. E tutto questo impegno benché la soluzione di oggi sia da considare solo come un passo molto modesto verso la ristrutturazione dello stato sociale. In secondo luogo il negoziato sulle pensioni è un test importante per verificare la tenuta dell’accordo con il prc, che anche ieri non ha nascosto una certa irritazione per le ipotesi predisposte dall’esecutivo. Nel breve termine, si dovrà riscontrare se la soluzione della crisi di governo è stata una soluzione vera o figurativa, affollata di cose non dette, di allusioni imprecise, di fraintendimenti reciproci più o meno voluti. Ma non c’è solo un problema di breve periodo. Ciò che viene messo alla prova in questi giorni è la capacità residua del governo dell’Ulivo di esprimere una politica riformista. Perché non esiste soltanto un problema di quantità, cioè gli obiettivi di bilancio da raggiungere con la legge finanziaria per il 1998: c’è un problema di qualità delle misure, e cioè innanzitutto della loro capacità di equilibrare in modo duraturo i conti pubblici. È probabile infatti che Carlo Azeglio Ciampi riuscirà a ottenere un insieme di provvedimenti tale da soddisfare le esigenze di stabilizzazione; ma una volta che il ministro del Tesoro avrà assolto il suo compito primario, toccherebbe poi a Prodi riprendere il cammino verso gli obiettivi di modernizzazione strutturale che il centrosinistra aveva assicurato di saper realizzare. Oggi siamo davanti a una domanda cruciale: esistono ancora le condizioni per operare verso questi obiettivi? La trattativa sulle pensioni non darà una risposta risolutiva al quesito, ma qualche indicazione sì. Per ora il pessimismo non è un preconcetto: da qualche tempo sembra essere maturata nella maggioranza la convinzione che ormai l’approdo alla moneta unica è poco più di un atto notarile. È anche per questo che prima e dopo la crisi di governo si è diffuso come pensiero politico prevalente quello esemplificato dal «prima o poi un accordo si trova»: su tutto, sulle pensioni come sull’orario di lavoro; risolto l’essenziale, vale a dire la crisi politica, l’intendenza seguirà. Pensando anche che non sarà qualche centinaio di miliardi in meno a pregiudicare un cammino già così favorevolmente segnato. Un atteggiamento di questo tipo non rivela soltanto una concezione maneggiona della politica, ma anche l’accettazione sostanziale che in prospettiva di riforme serie se ne faranno poche. L’insidia è insomma che siamo già passati psicologicamente nella fase in cui non si tratta più di intervenire in profondità, di liberalizzare il mercato, di ristrutturare qualitativamente il welfare, di sgravare la società produttiva dalla pletora di leggi, regolamenti e vincoli che la soffocano, di ridare un senso all’amministrazione pubblica e alla scuola, ma ormai di assecondare un processo quasi inerziale con pochi e non conflittuali aggiustamenti finanziari qua e là, dove la resistenza è minore. Siamo in bilico insomma fra scelte di modernizzazione effettiva e una politica dei «taglietti» politicamente contrattati. E si rischia di perdere di vista che la permanenza in Europa, in un sistema rigido, sarà difficile già con il nostro modello di concertazione, con il peso di una politica macchinosa nella sua architettura stessa. Se si perde di vista anche la necessità di riformare ciò che deve essere riformato, e se l’orizzonte politico verrà saturato dalla richiesta di difendere quelli che vengono chiamati diritti acquisiti, e che sono in realtà aspettative corporate, forse sarà possibile imbellettare una riforma qualsiasi delle pensioni, ma sarà piuttosto improbabile acquistare il dinamismo sufficiente per ritrovarsi in Europa con la capacità di competere.

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