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IL BOCCONE PUO’ ESSERE INDIGESTO

13.11.1997

Con il tono rude e autocompiaciuto che conduce all’applauso i rioni e le platee, Antonio Di Pietro non ha perso l’occasione per maramaldeggiare ai danni degli sconfitti: il Polo è «cotto», e quanto a Berlusconi si tratterebbe solo di trovare il modo adeguato per dargli la buonuscita. Si può leggere tutto questo sulle colonne di questo giornale, e valutarne appropriatamente il tono baldanzoso. Il senatore del Mugello non sa, o forse sa benissimo, che così dicendo mette in luce una verità molto parziale. Perché è vero che il centrodestra è entrato in quella situazione di afasia che precede l’agonia politica. Quando poi escono dall’afasia gli esponenti del Polo si lasciano andare a un cupio dissolvi tra il voluttuoso e il livido: dopo l’accordo padronale del Giornale con Di Pietro, Giuliano Ferrara si lascia andare confessando di essere «un elefante di sinistra che viaggia con la destra solo per rimettere il diritto al suo posto naturale»; i postemocristiani guardano a Forza Italia come a un errore politico in sé; e le differenze politiche nella coalizione si approfondiscono, se è vero che Fini e Berlusconi hanno cominciato a darsi sulla voce anche a proposito della qualità dell’ordigno trovato a Roma vicino al Palazzo di Giustizia. Quello che non viene detto è che la crisi del Polo e la sua potenziale dissoluzione non sono solo un problema del centrodestra. In una situazione di bipolarismo ancora fluido non è detto che la crisi di uno schieramento rimanga recintata, anzi, può trasformarsi rapidamente in una crisi di sistema. Vale a dire che se il Polo si polverizza, si apre un vuoto: e in politica, se un vuoto si crea, qualcuno lo riempie. Infatti le candidature a spartirsi le spoglie del Polo sono già state avanzate. Tuttavia finora i Cossiga, i Martinazzoli, i Segni sono apparsi più che altro possibili attori di una strategia di Palazzo. Invece la baldanza dimostrata da Di Pietro è il riflesso della convinzione di potere all’occorrenza spostare voti. Per ora il senatore del Mugello ostenta modestia, inneggia all’unità, colora di elegia l’alleanza fra il «centro dei valori» e la sinistra moderata. Ma chi può scommettere su che cosa accadrà domani? Domani, o meglio domenica, accadrà in primo luogo che si verificheranno sul campo le previsioni che danno il Polo in caduta libera nelle elezioni comunali. Ma prima di ripetere ancora una volta che la prevedibile sconfitta elettorale del centrodestra aprirà un aspro dibattito sulla sua leadership, sarebbe il caso di valutare perché è probabile che i sindaci del centrosinistra sconfiggeranno severamente i candidati loro contrapposti. Anche perché è di qualche interesse notare che i trionfi pronosticati per i candidati ulivisti non sembrerebbero politicamente spiegabile: è vero o non è vero che il governo in carica infatti non ha perso occasione per scontentare tutti o quasi, ambienti confindustriali e pensionati, giovani e anziani, lavoratori dipendenti e lavoro autonomo? Come si spiega allora il plebiscito atteso per candidati che rappresentano nel territorio la stessa posizione politica che si esprime a Roma? Esiste una specificità locale che premia la capacità politico-amministrativa di Cacciari, Rutelli o Bassolino? I sindaci in carica hanno sempre un vantaggio di immagine in più rispetto ai loro avversari? Certo, c’è molto di questo. Ma c’è anche un altro aspetto, riassunto nel principio secondo cui vale per i sindaci ciò che vale per il governo. Ovvero: durare è di per sé un valore politico. Le deprecazioni pubbliche che hanno accolto in ottobre la rottura con Bertinotti sono la prova evidente che la stabilità fa premio anche sulla qualità politica. Si può criticare il governo, ma l’importante è che continui a fare il suo lavoro. Nel nome dell’Europa, per ciò che riguarda Palazzo Chigi; nel nome della prevedibilità per ciò che riguarda i sindaci. Insomma, sulla qualità si viene a patti, sulla stabilità no. Sembrerà la più banale delle constatazioni, ma al fondo di tutto questo c’è più di una lezione da trarre. La prima è che non conviene a nessuno augurarsi o puntare sulla distruzione dello schieramento avverso. La seconda lezione è che è politicamente probabile che non convenga a nessuno nemmeno puntare sulla turbolenza. Finché il centrosinistra tiene, cioè garantisce stabilità e durata, può attrarre consensi e garantire visibilità anche ai propri esponenti più deboli elettoralmente. Ma se qualcuno vedesse nella crisi presente e soprattutto futura del centrodestra un’occasione per tentare il grande rimescolamento, cioè, in altre parole, se a qualcuno venisse in mente di mangiarsi in un solo boccone un Polo ancora più «cotto», potrebbe forse ottenere notevoli risultati nel fluttuare sbandato di parlamentari e fazioncine disperse: tuttavia sarebbe tutto da dimostrare che la raccolta degli sbandati avesse un significativo equivalente fra gli elettori. E se questi ultimi pensassero che lo scombinamento dei Poli è un attentato alla stabilità? Una prova di avventurismo? E se malgrado sconfinamenti e ribaltini l’idea dominante fosse che è meglio un Prodi oggi che un chissachi domani? Insomma, in politica mai niente è precluso: ma potrebbe anche darsi che dopo il 16 novembre qualcuno spiegasse a Di Pietro che sarà meglio aspettare che il Polo rimetta insieme i suoi cocci senza interferenze esterne; e che in fondo la sua naturale baldanza conviene continuare a spenderla nelle file in cui è stato eletto, magari risparmiando sull’esibizione dei muscoli.

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