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LA VERA CRISI DELLA DESTRA

24.11.1997

I risultati alle elezioni amministrative hanno scatenato la turbolenza nel Polo. La posizione di Berlusconi è tornata sotto tiro, anche perché nel frattempo Cossiga si è dichiarato pronto a guidare una formazione alternativa al Polo e all’Ulivo. L’iniziativa dell’ex presidente della Repubblica è nata male, dato il troppo evidente tasso di reducismo, ma sicuramente è stata il segnale che si è riaperto il mercato per quell’elettorato centrista che finora accasatosi, per convinzione o rassegnazione, in Forza Italia. Ma è giusto considerare le convulsioni nell’area centrista come «il» problema dello schieramento di destra? È giusto se si guarda alla cronaca politica spicciola: la dissoluzione di Forza Italia sarebbe effettivamente un evento politico di prima grandezza. Ma da un punto di vista «di sistema» non ci sarebbe poco di sconvolgente. Dell’elettorato di Forza Italia infatti si conosce piuttosto bene il profilo. È buona parte di quel paese sommerso che votava per la Dc e il Psi e che ha visto in Berlusconi un salvagente. Un’Italia che forse non crede del tutto nel mercato ma sicuramente crede meno nello Stato. Liberale senza avere una cultura liberale. Comunque, un segmento di società senza segreti, che aspetta semplicemente un soggetto politico in grado di rappresentarlo efficacemente. Che sia Berlusconi o Cossiga, il capo di questo soggetto politico, e che quest’ultimo che si chiami Forza Italia o «partito democratico», non fa troppa differenza. Certo occorrerà un programma politico coerente e qualche idea chiara. Se si pensa che Berlusconi in un’intervista a Bruno Vespa pubblicata sull’ultimo numero di Panorama spiega come «scontato» il successo dell’Ulivo nelle grandi città perché «già nel 1993 Bassolino, Cacciari e Rutelli erano stati eletti al primo turno con maggioranze schiaccianti di oltre il 55 per cento» (mentre in realtà erano finiti in ballottaggi difficili) si capisce che c’è un gran bisogno di argomentazioni migliori. Ma questo riguarda la qualità della leadership politica, non la qualità degli elettori e la qualità delle ispirazioni politiche di fondo. Dov’è allora la crisi vera del centrodestra? Forse vale la pena di rivolgere lo sguardo più in là nel Polo, verso Alleanza nazionale. Un partito il cui pesante arretramento elettorale (nove punti percentuali persi rispetto alle politiche del 1996) è giunto inaspettato, dato che tutti si attendevano che An continuasse ad avere successo per le stesse ragioni per cui lo aveva ottenuto da quando Gianfranco Fini era entrato in campo contro Rutelli a Roma nel 1993. Ragioni in realtà non troppo autoevidenti. Fondate soprattutto sulla felicità di espressione del suo leader, e che hanno fatto pensare che dietro la sua capacità retorica ci fosse una chiara visione politica, una serie congruente di obiettivi, e in fondo una cultura. In realtà Fini era la faccia televisivamente efficace di una trasformazione politica affrettata. Se An avesse dovuto affrontare tutti gli esami di democrazia e di liberalismo a cui è stato sottoposto il Pci-Pds, la svolta di Fiuggi sarebbe apparsa una trovatina estemporanea. In ogni caso non si è capito verso quali ulteriori tappe An avrebbe condotto la sua trasformazione. Fini ha continuato a imperversare nella tattica, a sbaragliare molti avversari in tv, ma senza fare intendere che cosa voleva. Giocando su un equivoco, ha suscitato aspettative che inevitabilmente sono state frustrate. Battezzata come un partito capace di coniugare libertà e autorità, liberismo di mercato insieme a un’inclinazione «sociale e cristiana», An è capace di fare sentire le sue impazienze quando c’è di mezzo l’immigrazione, ma sul resto, sulla giustizia come sulla riforma del welfare non sembra avere una linea chiara. Tanto è vero che, nell’imbarazzante silenzio del Polo sulla riforma delle pensioni, Fini è riuscito a bocciarne l’unico elemento qualificante, cioè l’equiparazione fra lavoratori pubblici e privati. A seguire le evoluzioni annunciate di An, le idee non si chiariscono. Prima si annuncia un destino thatcheriano, e protestano i capifila della destra sociale, poi si profila un programma di destra americana, quindi si recupera in ritardo Karl Popper e la società aperta, per concludere con il «modello Giuliani», dal nome del sindaco di New York teorizzatore della «tolleranza zero» verso l’illegalità. In queste condizioni la «Fiuggi 2», il nuovo appuntamento programmatico previsto a Verona il 20 febbraio, potrebbe avere una portata molto limitata, proprio a cagione delle profonde incertezze sulla fisionomia da assumere. Certo, è difficile trasformare un partito nazionalista, populista, protezionista, percorso da vibrazioni ribellistiche e da emotività antisistema, in un partito davvero liberale, in una destra moderna in quanto omologata. Per questo, di qui all’appuntamento veronese, può darsi che il vero punto di debolezza per i liberali di centrodestra venga individuato proprio in An. Il che non implica necessariamente rotture traumatiche fra il centro e la destra, ma più pragmaticamente la messa a fuoco che la competitività del Polo (o di quello che sarà) va giocata tutta sul centro dello schieramento, scontando come fisiologica una certa marginalizzazione degli ex missini, e mettendo da parte le illusioni che Fini possa essere il cavallo di riserva per la leadership dello schieramento. Per recuperare quello che Berlusconi chiama enfaticamente «lo spirito del ’94», ma che più semplicemente essere definita un’egemonia liberale su un programma proposto senza equivoci a tutta la società italiana.

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