gli articoli LA STAMPA/

IL PAESE DEGLI ERRORI

03.12.1996
SOCIETA' CULTURA E SPETTACOLI
Dagli strafalcioni dei politici alle polemiche sulle traduzioni olimpiche: si scatena l'Italia degli incompetenti

Si fa presto a dire ignoranti: il fatto è, potrebbe dire un Ceronetti, che l’ignoranza vera è una virtù, una condizione ontologica che avvicina misteriosamente alla beatitudine e alla santità, allude in modo disarmante al divino e alle sue prerogative. Invece, quando Umberto Bossi, come è successo di recente, chiama in causa il gulasch ungherese intendendo il gulag sovietico, si possono fare matte risate, ma non è affatto detto che il capo della Lega sia un ignorante. Molto più probabilmente è uno che ha imparato troppo in fretta, che ha stratificato nella sua rete neurale una quantità eccessiva di informazioni: di tanto in tanto scatta un cortocircuito beffardo ed ecco il gulasch al posto del gulag, un lapsus formidabile perché sembra connaturato con la fisionomia di Bossi, studente fuori corso, inventore di mitologie, straordinario orecchiante e dominatore di pizzerie. Dagli strati dialettali del Bossi prima maniera usciva una volta la «gabina» elettorale, che ben presto divenne quasi una sua civetteria, una strizzata d’occhio ai militanti della Lega in quanto movimento «popolano», un segno di riconoscimento: gli altri sono gente leccata che parla con un birignao politico impregnato di falsità: la Lega parla la lingua dei suoi elettori, va dritta alla sostanza delle cose, parla come mangia. E se talvolta nel menù del giorno c’è il gulasch, ancora meglio, è un tocco di Mitteleuropa in più. D’altronde, quando Berlusconi dice «chiacchere», oppure «è un fatto prodromico», non usa proprio il linguaggio del nucleo duro del suo elettorato, dei promotori finanziari e dei venditori di pubblicità? È difficile quindi oggi riconoscere gli ignoranti «veri». Lo stesso Adriano Celentano, che si autoqualificò con la sigla di «re degli ignoranti», e quindi portatore di un messaggio di ingenuità contestatrice, non è un naïf sino in fondo: in quanto piuttosto è un teorizzatore, un rielaboratore di informazioni messe insieme alla rinfusa e assemblate in prodotti dottrinari. In qualsiasi bar si incontrano tipi umani cosiffatti, che svelano dietrologie colossali e macchinazioni cosmiche. Assistere a uno spettacolo di Beppe Grillo significa assistere alla estremizzazione scientifica di questo procedimento: si svelano nessi causali tra fenomeni apparentemente remoti, immaginando di conseguenza soluzioni meravigliosamente eccentriche, a cui nessuno pensa, o a cui pensano soltanto emarginati e misconosciuti, vittime designate della scienza e della cultura ufficiali. Per un paese con indici di lettura non europei, l’ignoranza comunque è un peccato (o una condizione) evidentemente meno grave dell’esibizione di cultura. La competenza è tollerata soltanto quando è limitata, settoriale, specifica, e quindi approfondita in una sola dimensione, che si tratti di terremoti, di entomologia o di paleoantropologia. In modo da dare al pubblico televisivo la possibilità di sbalordirsi per le conoscenze esoteriche dell’esperto, immediatamente configurato come attraente mostruosità, un freak della conoscenza. Nel caso invece di una cultura «generale» che si esprime con l’appropriatezza del lessico, e magari con una certa complessità nell’articolazione del pensiero, nasce subito l’insofferenza. Troppo complicato, commenta fra sé la Mara Venier di turno, i bambini ci guardano, e anche le nonne, e non possiamo fare crollare l’audience con certe esibizioni. Perché l’ignorante vero si rivela nella sua tenace indifferenza, e anzi per il suo rancore, verso la forma. Ciò che conta, per lui, è solo ed esclusivamente la sostanza. Il favore popolare verso Di Pietro è dato certamente dall’azione svolta nell’indagine Mani pulite, ma è sottolineato dalla consistenza autenticamente popolare dell’ex più ex d’Italia. Dallo storico «che ci azzecca», ai sette definitivi «basta!» delle ultime dimissioni, il vocabolario di Di Pietro è quello che ci vuole per solleticare la voglia di materialità: quando il Tonino nazionale dice «soldi» si sente ancora adesso il frusciare di lontane mazzette, quando parlava dei cantieri da riaprire sembrava di sentire il rombare di camion e il rumore delle betoniere. E tanto meglio se l’ortografia e la sintassi vacillavano, come dicevano i disfattisti del suo ministero: perché l’attivismo non si fa imbrigliare da troppe regole. Il fatto è che la forma è fastidiosa. Non appena Ernesto Galli della Loggia ha criticato sul Corriere della sera la qualità dei tre volumi del progetto per Roma olimpica, indicando puntigliosamente gli errori fattuali (fra cui le regioni italiane che sarebbero 19 anziché 20 e l’onnipresente Di Pietro designato come ministro degli interni anziché dei lavori pubblici) e gli strafalcioni formali della traduzione in inglese, che dà luogo a un «anglo-romanesco» tale da indurre Galli della Loggia a chiedere: «Come si può affidare l’organizzazione di una cosa complessa e irta di insidie come le Olimpiadi a chi dimostra di non essere neppure in grado di far eseguire una traduzione decente dall’italiano all’inglese?». Ma ciò che è risultato più interessante è la risposta del sindaco Rutelli, il quale ha ammesso che la traduzione all’amatriciana era piena di errori e refusi. «Ma – ha aggiunto in modo apodittico – la bontà del progetto non viene messa in discussione». Vale a dire: la forma faceva schifo, ma la sostanza è buona, garantisco io. E il direttore del Comitato Roma 2004, Raffaele Ranucci, aggiunge con animo esulcerato che le critiche di Galli della Loggia gli fanno «melanconicamente intendere che il più importante e diffuso quotidiano italiano ha deciso di assumere una linea contraria al nostro progetto di organizzare a Roma i Giochi Olimpici del 2004». Dietro alle censure verso una traduzione deplorevole ci sarebbe quindi una macchinazione, o per lo meno una presa di posizione aprioristica: mentre noi, noi del comitato, «in questa candidatura crediamo». * * * Siamo agli atti di fede, dunque, e magari nei pressi di un conflitto tra fede e conoscenza. Credete voi…? Crediamo! Ed è un conflitto che si presenta quasi ogni giorno e su qualsiasi argomento, dato che negli ultimi anni gli italiani si sono dovuti sottoporre a un apprendimento a tappe forzate. Hanno dovuto fare un corso di recupero sul liberalismo, per anni disprezzato come l’espressione del privilegio «borghese». Ha scritto su questo giornale Enzo Bettiza il 24 novembre: «Chi liberale, chi liberista, chi liberal, chi liberalcattolico, chi liberalsocialista, pare che tutti, non solo a sinistra, siano animati dalla volontà di riportare nella pericolante società italiana della seconda Repubblica il soffio di una filosofia politica che ha avuto in Croce il più eminente capostipite». Tutti laureati in liberalismo (eventualmente con i corsi di sostegno reclamizzati negli spot televisivi, che lanciano il diseducativo messaggio che ci si può laureare senza fatica e senza frequenza). Così come fino a pochi mesi fa il termine dominante, il passe-partout del grand hotel politico era «liberaldemocratico». Logico che il passaggio accelerato dalla vulgata marxista a Popper e Hayek abbia prodotto qualche sfilacciatura. Anche perché il passaggio al liberalismo è avvenuto insieme alla riscrittura della legge elettorale e soprattutto al dibattito sulla riforma istituzionale, che ha imposto una full immersion in settori di competenza che prima erano pressoché tabù. Con il risultato che tutti si sono dati volonterosamente all’approfondimento dell’ingegneria costituzionale, studiando le leggi elettorali e le formule istituzionali nostre e altrui, salvo poi trovarsi spiazzati all’improvviso allorché un maestro come Giovanni Sartori citava lì per lì il presidenzialismo finlandese, gettando nello sconforto gli astanti. E anche adesso Sartori non perde occasione per sottolineare con la matita blu gli erroracci dei presunti esperti di riforme, smontando regolarmente le false convinzioni associate al sistema maggioritario e alle sue interpretazioni di comodo. L’altro settore critico, su cui ci si è dovuti fare una cultura fin troppo rapidamente è stato nell’economia. Dismal science, scienza triste (ma con una sfumatura in più, di malinconia, di depressione) nella definizione di Carlyle, l’economia è stata felicemente evitata ed evitabile negli anni della grande dilapidazione, quelli che coincidono con la fase finale della Repubblica dei partiti. Adesso invece ci si è dovuti dotare dei principali strumenti analitici, per poter circolare senza troppi timori tra le grandezze macroeconomiche. Ciò nonostante la differenza concettuale tra il deficit, cioè il fabbisogno annuale determinato dal saldo fra entrate e uscite, e il debito pubblico, vale a dire il montagna incantata dei due milioni di miliardi accumulata dallo Stato, questa differenza rimane ancora indistinta, incerta, ballerina. L’economia è piena di trappole. Si accende la tivù, la sera, e il telegiornale informa che l’inflazione si è ridotta. Dopo di che, servizio sul campo ai mercatini della frutta e verdura, in cui si chiede alle brave massaie che cosa ne pensano del calo dei prezzi: confondendo piuttosto fastidiosamente calo dell’inflazione, cioè il calo dell’aumento, con il calo vero e proprio: e quindi inducendo le massaie a legittime manifestazioni di sfiducia e talvolta di furore. Insomma, più che di ignoranza bisognerebbe parlare di inadeguatezza. Ce ne stavamo bene, qui, indifferenti ai parametri di Maastricht, al doppio turno alla francese, al modello Westminster, al federalismo tedesco, al rapporto fra deficit e Pil. Fino a non troppo tempo fa nel nostro paese si discuteva ancora se si sarebbe potuto realizzare il socialismo senza la dittatura del proletariato. Adesso ci si è adeguati, ma il passaggio è stato troppo repentino per essere indolore. È stato come passare dalla cucina della nonna, o della trattoria sotto casa, a un ristorante esotico, con proposte quasi incomprensibili. Alzi la mano quindi chi, all’estero, di fronte alle indicibilità della nouvelle cuisine o all’incomprensibilità delle portate non si è salvato indicando sul menù l’unica cosa che aveva capito: gulasch, e crepi l’ignoranza.

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