Domenica 9 aprile, prima di tutto, i cittadini italiani sono chiamati a decidere se intendono mantenere in vigore lo schema politico che esordì alle elezioni del 1994, e che successivamente è stato messo alla prova nel 1996 e nel 2001, oppure se la politica oggi richiede il prezzo di un altro cambiamento profondo, un’inversione di tendenza dalle conseguenze imprevedibili. Alle prossime elezioni politiche va infatti in discussione il sistema dell’alternanza politica. Dal risultato del voto dipenderà con ogni probabilità l’evoluzione del nostro sistema politico; forse, anche la stabilità generale del nostro Paese. Si chiama alternanza politica, è fondata sulla competizione fra due schieramenti politici, l’abbiamo conosciuta con il termine di bipolarismo, il suo punto di leva è stato il sistema (semi)maggioritario. Il nostro Paese ci è arrivato dopo oltre mezzo secolo di «democrazia immobile», secondo la definizione di Giovanni Sartori, in cui l’area del governo è stata presidiata perennemente dalla Democrazia cristiana e dai suoi alleati. Per assistere al cambiamento delle fondamenta su cui si basava sistema politico, si è dovuto attendere un evento, o per meglio dire un processo, esplicitamente traumatico. Sono state necessarie alcune concause di forza maggiore, che hanno schiodato la politica italiana dalla paralisi in cui si trovava. In quella stagione, all’esordio degli anni Novanta, apparivano evidenti sia le ragioni che determinavano l’immobilismo, e più specificamente il cattivo funzionamento della politica, sia i possibili rimedi. A distanza di tempo è agevole riassumere i motivi che avevano determinato lo stallo e le condizioni dell’inefficienza di sistema. È vero che la caduta del blocco sovietico e la decomunistizzazione dell’Europa centro-orientale avevano sciolto i vincoli internazionali che si erano impressi sulla politica nazionale, determinando la sindrome del bipartitismo imperfetto e la conventio ad excludendum nei confronti di un partito, il Pci, a lungo reputato ideologicamente antisistema: ma non per questo si erano create con adeguata rapidità le opportunità dell’alternanza politica. La Democrazia cristiana era entrata in una fase di attrito permanente con i suoi alleati, e in particolare con il suo patner rivale, il Partito socialista, con il risultato di una governabilità difficile se non impossibile: l’inefficacia dei governi si era rivelata con ogni evidenza nella situazione pre-catastrofica dei conti pubblici, con la dilatazione straordinaria del debito e del deficit. A uno sguardo d’insieme, il sistema politico italiano dava l’impressione di un’architettura lambiccata che si negava con ogni mezzo a qualsiasi intento riformatore. In quelle stagioni divenne senso comune l’idea che occorresse trovare uno strumento per procedere allo sblocco della politica. Ma nello stesso tempo pochi vedevano la possibilità realistica di un’azione incisiva per rimettere in funzione la macchina, della politica e del governo. Anzi, le riflessioni giravano a vuoto attorno all’incapacità del sistema politico di riformare se stesso (la politica italiana non sa prendere le grandi decisioni; la Grande riforma è una grande decisione; ergo, la Grande riforma è impraticabile: così suonava più o meno il «paradosso Zagrebelsky»). Altri segnalavano la costante storica secondo cui le riforme istituzionali erano state imposte in altre realtà nazionali da uno choc esterno, e per questo molti si domandavano quale sarebbe stata la nostra Algeria, e chi – fatte le debite proporzioni – il nostro de Gaulle. Invece si verificarono almeno due importanti choc interni. Il primo, è superfluo ricordarlo, è sintetizzato dalla parola Tangentopoli. Cioè l’intreccio politico-affaristico che aveva causato una diffusione impressionante della corruzione, in pratica a ogni livello e in ogni snodo della vita pubblica, con effetti spesso mortificanti per i cittadini e le imprese sottoposti al dazio, o secondo il lessico di Antonio Di Pietro, alla «dazione ambientale» che regolava le relazioni fra politica ed economia. Una «normalità», nella Repubblica dei partiti, tuttavia con ripercussioni sistematiche sulla vita civile: anche a distanza di tempo, non è superfluo ricordare un riflesso indotto di Tangentopoli, che esula dalla necessità di finanziare i partiti, e quindi la macchina democratica, rivendicata da Bettino Craxi nel suo più celebre e controverso discorso parlamentare. Infatti la pratica delle tangenti, eretta e dilatata a sistema, aveva provocato distorsioni gravissime anche nell’economia e nell’apparato produttivo, distorcendo la concorrenza, creando barriere all’ingresso del mercato, alterando i prezzi e quindi, in modo insostenibile, i costi degli appalti pubblici. Il secondo choc è reso addirittura spettacolare dalla crisi valutaria del settembre 1992, allorché un’autentica bufera internazionale si scatenò sulla lira provocandone l’uscita dal Sistema monetario europeo e una svalutazione imponente. Sembrò in quel momento che la finanza pubblica dovesse soccombere, e solo una legge finanziaria di ingente entità, approvata in un clima di fortissima preoccupazione civile dal governo di Giuliano Amato, riuscì a evitare il collasso del debito. Altri aspetti vanno tenuti presenti in questa ricostruzione sommaria, a cominciare dall’irruzione nel panorama politico della Lega di Umberto Bossi, che propugnava chiaramente un federalismo che non celava affatto una volontà secessionista; nonché la preoccupazione delle élite economiche e istituzionali che l’Italia non riuscisse a rispettare i recenti accordi di Maastricht, e che quindi la prospettiva europea del nostro Paese divenisse nei fatti un miraggio, con il rischio di un’involuzione gravissima, di una perdita radicale di credibilità, di una effettiva desertificazione del Paese. Mentre i partiti «storici» dell’area governativa si disgregavano, e l’ex Pci attraversava una metamorfosi che si concludeva con la scissione di Rifondazione comunista, come si è accennato il punto di leva della trasformazione politica fu individuato nel cambiamento della legge elettorale. Fra il 1991 e il 1993 due referendum popolari portarono all’approvazione della legge maggioritaria (corretta, o alterata secondo molti, in senso proporzionale). Ciò che in questo momento va sottolineato è il forte coinvolgimento dell’opinione pubblica a favore di questo mutamento delle regole del gioco. Oggi forse può sembrare ingenua l’aspettativa che il nuovo metodo di voto ridisegnasse in modo virtuoso l’intera architettura del sistema politico. Non mancarono allora alcune riserve, secondo cui era illusorio o almeno fortemente semplificatorio pensare che la formula elettorale potesse dare luogo automaticamente ai «figurini istituzionali» (come li definì Mauro Calise) della maggioranza che governa e dell’opposizione che controlla e si prepara a governare in alternativa. Tuttavia il movimento a favore del maggioritario fu travolgente: dopo decenni di risultati elettorali spesso difficilmente interpretabili, misurati su avanzamenti e arretramenti quasi infinitesimali, la società italiana mostrò di apprezzare il tocco risolutivo apportato dall’uninominale, e cioè la designazione immediatamente riscontrabile dello schieramento vincitore, e la semplicità dell’espressione del consenso «di qua o di là», a destra o a sinistra, senza i classici bilancini e le elusioni del voto proporzionale. L’apprendimento della cosiddetta logica del maggioritario fu molto rapida. I cittadini-elettori mostrarono di assimilare con notevole rapidità le nuove regole del gioco. La personalizzazione del confronto politico, evidente già alle prime elezioni politiche condotte con le nuove modalità, nel 1994, fu intensificata da una serie di consultazioni amministrative in cui si sperimentava l’elezione popolare diretta. Ma al di là della capacità dell’elettorato di comprendere e usare opportunamente la formula maggioritaria, ciò che va considerato è che i referendum elettorali e le prime elezioni maggioritarie consentirono di mantenere e convogliare i sentimenti popolari dentro il circuito politico e istituzionale. Non si tratta di un prodotto secondario, in questa prima e tumultuosa fase della transizione italiana: la situazione appariva caotica, la crisi finanziaria grave, l’insofferenza generale verso la «partitocrazia» e il «consociativismo» fortissima, come pure il risentimento verso il sistema delle tangenti politiche. Non era allarmistico in queste condizioni valutare che potessero manifestarsi fenomeni di protesta, come anche di ingovernabilità, tali da mettere a repentaglio la stessa stabilità del Paese. Crisi sociale, collasso istituzionale e tracollo finanziario erano rischi incombenti. Sotto questo profilo, i referendum elettorali e la ghigliottina politica del maggioritario contribuirono a tenere la società italiana all’interno di una struttura politica legittimata, sancita da una vastissima partecipazione e da un largo convincimento dell’opinione pubblica. In sostanza, non c’era stato lo choc esterno (e neanche, per fortuna) lo choc estremo). Il passaggio a una diversa fase della vita della Repubblica era stato reso possibile da un percorso istituzionale, sovrappostosi alla crisi, questa sì drammatica, dei partiti. A distanza di oltre un decennio si poteva ragionevolmente affermare che il processo di razionalizzazione politica aveva rispettato le previsioni finali, anche se le sorprese intermedie erano state vistose. Coerente con le aspettative, e con la dinamica prevista dalle «leggi di Duverger» era stato il formarsi di due schieramenti principali, separati da un confine che via via è si è andato rimarcando e approfondendo, fino a impedire di fatto spostamenti da una parte all’altra dell’arco politico. Forse meno prevedibile, invece, era il fatto che la scena italiana venisse occupata, per oltre un decennio, dalla figura di un uomo d’impresa e di media come Silvio Berlusconi. E tuttavia è appropriato considerare che proprio la fisionomia politica e patrimoniale del capo di Forza Italia, la sua «anomalia» in quanto portatore di un conflitto d’interessi immane, e la sua spregiudicatezza nella politica quotidiana, hanno avuto una funzione essenziale nel comporsi delle aggregazioni politiche. Il bipolarismo si è consolidato anche in seguito alla presenza in politica di Berlusconi, grazie alla sua carica anarco-liberale, al suo disprezzo per il settore pubblico e per i politici di professione, alle sue polemiche contro i «comunisti » (categoria entro la quale il leader di Forza Italia raggruppa una serie di figure sociali che va dalle «toghe rosse» ai funzionari di partito, dagli uomini della burocrazia ai sindacalisti). Tuttavia questo sistema bipolare, per quanto abborracciato e stressato, si era via via assestato attraverso tre consultazioni politiche nazionali, e con due legislature giunte al loro termine naturale. Sotto questa luce, l’approvazione unilaterale della riforma in senso proporzionale, costituisce un colpo durissimo a questo processo di stabilizzazione razionalizzatrice. A un processo a suo modo storico, inserito all’interno di un cambiamento complessivo e profondissimo della politica, si è risposto con un colpo di mano partitocratico. In effetti, la qualità tecnica della legge è pessima, come ha rilevato fra gli altri e fra i primi Giuliano Amato; la formula per il Senato, stratificatasi attraverso correzioni successive per sfuggire a un vizio di incostituzionalità, a causa del premio di maggioranza al livello regionale tende a smussare le differenze fra gli schieramenti, favorendo dunque risultati prossimi al pareggio, e comunque incapaci di assicurare forza governativa allo schieramento vincitore. Alla Camera, il sistema delle liste bloccate, senza le preferenze, riporta la selezione dei candidati (e degli eletti) nei corridoi più segreti della politica, proprio nel momento in cui almeno nel centrosinistra l’esordio delle elezioni primarie aveva introdotto elementi di partecipazione e di democratizzazione nella scelta dei protagonisti del confronto politico. Insomma, cominciata sull’onda di una mobilitazione popolare e ispirata dalla logica stringente del maggioritario, la transizione italiana finisce, o perlomeno si aggroviglia su se stessa, sotto un segno proporzionalista e partitocratico. Il premio di maggioranza allo schieramento vincitore è l’unico velo che ancora divide le due ali del sistema politico. Il risultato previsto da molti osservatori è un risultato elettorale, nelle urne del 9 aprile, contrastato, forse poco leggibile, favorevole agli istinti manovrieri della politica vecchio stampo che non agli obiettivi di stabilizzazione dei governi. Ciò che si prospetta dunque è un potenziale processo di destrutturazione del bipolarismo attuale. A cui per la verità guarda con simpatia una parte tutt’altro che irrilevante della nostra politica, e comunque tutti coloro che hanno giudicato «artificiosa» la costruzione dei due poli (proponendosi dunque di lavorare per scomporre e riassemblare i pezzi dell’arco politico). Questa è l’intenzione di tutti coloro che affermano che «questo bipolarismo è fallito»: la tesi sottostante tocca evidentemente il tema della collocazione «innaturale» della componente moderata nella coalizione di centrosinistra, e non nasconde la volontà di procedere al rifacimento dell’architettura politica su cui si sono retti dodici anni di confronto. Sarebbe facile, e rispondente a un giudizio di parte, rispondere che il fallimento non riguarda il bipolarismo, bensì il quinquennio di governo del centrodestra, e che quindi l’approvazione della legge proporzionale risponde con un cambiamento di regole fondamentali a un problema specifico di capacità politiche e di qualità tecnico-professionali (per dirla con una metafora, sarebbe come se la constatazione che la nazionale di calcio gioca male portasse non a cambiare il commissario tecnico e nemmeno i giocatori: bensì a cambiare gioco, passando al basket). Conviene invece segnalare, in modo non partigiano, qualche aspetto importante legato ai risultati del 9 aprile: insomma, qualche congettura su ciò che potrebbe essere in gioco con il voto e soprattutto dopo il voto. Se si assisterà a un risultato nitido, con la vittoria accertata di uno schieramento, si tratterà di osservare se il sistema proporzionale non abbia accentuato le differenze interne alla coalizione vincitrice, e quindi se la sua azione di governo potrà essere davvero efficace. Si è già avuto modo di notare che l’alleanza di centrodestra, in apparenza compatta una testuggine macedone, è stata attraversata da un conflitto lunghissimo e ancora irrisolto, frutto di personalismi (che hanno portato alla caduta del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, pilastro anche ideologico della Casa delle libertà) o di scarsa determinazione nei momenti di crisi (che ha condotto all’uscita del ministro Domenico Siniscalco, e al successivo recupero di Tremonti). Quanto alla coalizione di centrosinistra, il plebiscito dei quattro milioni e trecentomila votanti alle primarie ha certamente rafforzato la figura di Romano Prodi, ma non ha certo smussato gli attriti tra la decina di partiti che compongono l’Unione. Ma se invece il risultato fosse contrastato, vicino all’equilibrio fra le due coalizioni, oppure asimmetrico fra Camera e Senato, comunque poco decifrabile, o funzionalmente incapace di produrre governabilità adeguata ai problemi del Paese, i riflessi sui comportamenti dei principali attori politici sarebbero probabilmente immediati. Verrebbero rapidamente alla luce progetti di Grande coalizione, «alla tedesca», già affiorati nei mesi precedenti la consultazione elettorale. Si profilerebbero possibilità inedite di soccorso parlamentare, con il fine dichiarato di consentire la governabilità, ma con conseguenze visibili di carattere trasformistico. Potrebbe prendere corpo la soluzione neocentrista ventilata in un paio di occasioni dall’ex commissario europeo Mario Monti. In ambienti extrapolitici si comincerebbe a lavorare sottotraccia per soluzioni di carattere tecnocratico, secondo il paradigma «se la politica non ce la fa, proviamo un consiglio d’amministrazione». E così via, le soluzioni sono virtualmente infinite. Va anche considerato che la legge elettorale proporzionale, con la sua formula barocca di soglie di sbarramento, incorpora in ogni caso la possibilità che una formazione politica centrista, un blocco intorno al 35 per cento dei consensi, conquisti il premio di maggioranza e occupi in via permanente l’area di governo. Certo, il bipolarismo non è un totem. Ma l’alternanza al governo dovrebbe essere ormai acquisita come un valore essenziale per il buon funzionamento della democrazia. E allora viene davvero da chiedersi se fra poche settimane, alle elezioni politiche, sia in gioco soltanto la supremazia di uno schieramento, la vittoria di uno dei leader, la scelta fra programmi di governo alternativi, oppure qualcosa di ancora più importante e profondo. Ci si deve chiedere, con ragionevolezza e per ora senza drammatizzare, se la vera posta del 9 aprile sia non soltanto la possibile nuova disgregazione degli schieramenti politici, ma anche l’eventuale disgregazione del Paese in seguito a una prospettiva di non governabilità. È noto che la situazione attuale del nostro Paese è il risultato di un processo di lungo periodo. La perdita di competitività dell’industria e di quote nel commercio mondiale, il passaggio da un’economia industriale a un’economia dei servizi, lo sballottamento provocato dalla globalizzazione sono tutti capitoli di una transizione ancora più difficile e più faticosamente governabile di quella politica. Bene, alle elezioni politiche, attraverso una formula elettorale caotica, si avrà la decisione se questi processi potranno essere governati secondo un progetto politico individuato e scelto dai cittadini, da un programma omogeneo e credibile, da un orientamento generale che inserisca misure di governo e riforme funzionali entro una cornice chiara e attendibile. Oppure se sarà necessario procedere alla cieca. Nelle ipotesi peggiori, i fattori disgregativi della politica agirebbero insieme agli elementi di sfaldamento economico. Il richiamo a una situazione di tipo balcanico o mediorientale, aggravati a uno scenario politico di tipo feudale, con un esercito di partiti in conflitto o eternamente in manovra, non sarebbero un puro esercizio retorico. Un realismo non pessimista indurrebbe a evitare scenari catastrofici, e a ricercare in ogni caso soluzioni che permettano razionalmente di governare questa transizione che non si completa, e che anzi, nel momento in cui si stava solidificando è stata ricondotta virtualmente allo stato fluido. Ma un conto è la consapevolezza dei problemi, istituzionali, economici e «di sistema », allorché si possiede uno strumento politico in grado di produrre effetti ragionevolmente prevedibili, quindi la possibilità anche tecnica di governare. E un altro conto invece infilare il proprio giudizio sulla politica, cioè il proprio voto, in una scatola del caos, produttrice di conseguenze preterintenzionali. La sensazione di un’irrazionalità incontrollabile dà un senso di inquietudine ai cittadini. Ed è un’inquietudine che per ora non trova conforto in una speranza. Questa situazione, questa possibilità è stata ricercata, voluta, creata da una decisione politica. Se le cose andranno male, se il Paese diventerà il regno dell’instabilità, non sarà purtroppo di nessun sollievo conoscere l’identità del colpevole.
01-02 2006