gli articoli LA STAMPA/

D’ALEMA CONDANNATO AL SUCCESSO

05.02.1997

La Commissione bicamerale per le riforme ha davanti a sé un compito straordinario: deve portare a termine il mutamento politico-istituzionale italiano, ricostruendo un impianto messo in crisi dall’abbandono del principio proporzionale. Per una parte del mondo politico, si dice ricostruzione e si intende restaurazione. Può essere. Saranno infatti i partiti a riformulare la seconda parte della Costituzione, e non un’assemblea eletta dal popolo. E fra i partiti serpeggiano volontà conservatrici, ora palesi ora dissimulate, in cui si esprime la convinzione che il metodo migliore per cambiare è cambiare il meno possibile. Ma detto questo, occorre anche sottolineare che l’eccezionalità del compito che la Bicamerale si trova davanti non lascia spazio a opportunità di riserva. O la Commissione riesce entro giugno a partorire il suo progetto, oppure il sistema politico subirà un contraccolpo disastroso e verrà sommerso dal discredito; e al di là del discredito si troverebbe comunque impantanato in una transizione senza fine, preda di un assetto amorfo e squilibrato. Si tratta allora di capire quali sono le condizioni necessarie affinché i settanta parlamentari presenti nella Bicamerale possano produrre un risultato accettabile. La condizione fondamentale è che la «piccola costituente» non dovrà essere condizionata da fondamentalismi sulle formule istituzionali. Chi entra nella Commissione con l’idea di brandire una soluzione ultimativa e non mediabile (e poco importa che sia il presidenzialismo o il cancellierato), ha ottime probabilità di trasformare la Bicamerale in una palestra politica e di condurla in un vicolo cieco. Inoltre ci vuole una robusta quota di realismo. L’assemblea dei 70 ha davanti a sé un tempo limitato, e se si diffondesse la velleità eroica di rifare da capo a piedi l’edificio istituzionale ne potrebbero nascere insopportabili frustrazioni. Si deve sapere che la scelta della Commissione parlamentare, invece dell’assemblea costituente, contiene una matrice implicitamente riformista, non rivoluzionaria. La Bicamerale insomma ha il compito di individuare correttivi: sarà poco esaltante, ma saperlo previene il rischio delle disillusioni. Anche perché è inutile negare che esiste – non può non esistere – un legame potenzialmente pericoloso fra l’attività della Bicamerale e gli attuali equilibri politici parlamentari. Maggioranze «anomale», diverse dalla costellazione di forze che sostengono il governo, potranno formarsi su aspetti marginali del processo di riforma. Ma, ad esempio, Rifondazione comunista non esiterebbe a scaricare sul governo eventuali intese raggiunte in chiave presidenzialista: Bertinotti lo ha sempre detto chiaramente, e non è una minaccia che si può esorcizzare facilmente. Tuttavia il realismo a cui è obbligata la Bicamerale non può prescindere dall’individuazione di almeno due obiettivi di fondo. Il primo è soluzione del problema principale della nostra struttura istituzionale, e cioè la fragilità del capo del governo, il principale sintomo della malattia che ha reso inefficiente la Repubblica della proporzionale. Oggi non si tratta più di una fisiologica esigenza di consolidamento istituzionale, per restituire un equilibrio all’intelaiatura dei poteri: si tratta di una necessità vitale in funzione dei colossali lavori di ristrutturazione (nei settori dello stato sociale e nella pubblica amministrazione) che qualsiasi governo dovrà affrontare in un futuro molto prossimo, e che per essere realizzati richiedono una stabilità e una certezza di governo che il nostro Paese non conosce. L’altro obiettivo da perseguire è la stabilizzazione dello schema bipolare. Sembrerebbe una banalità, ma le preoccupazioni non sono mai troppe. È vero che la Bicamerale non si occupa della legge elettorale, ma si può osservare che alcune delle formule «neoparlamentari» che vengono proposte dal centrosinistra sembrano particolarmente adattabili a una futura legge elettorale rirpoporzionalizzante. Eccesso di sospetto? Può darsi. Ma la distanza che separa il processo di riforma istituzionale dalle decisioni che verranno assunte sulla legge elettorale non promette molto di buono. Legiferare a stralcio infatti conduce di solito a conclusioni coatte. E se questa coazione portasse alla fine a un nuovo mostriciattolo come la legge regionale? Su questo tema, purtroppo, non ci sono né garanzie né certezze. O meglio: l’unica garanzia la può offrire l’uomo politico che ha rischiato tutte le sue carte sulla Bicamerale, mettendo in ballo il suo prestigio politico, cioè Massimo D’Alema. Il quale è condannato a farcela: si gioca il futuro sul successo della Bicamerale. Ma se lo gioca anche sulla qualità di questo successo. Perché alla fine, dal punto di vista della storia, sarebbe lui, D’Alema, l’unico responsabile di una Costituzione nuovamente pasticciata; e sarebbe ancora lui, dal punto di vista della politica, il leader che non è riuscito a creare l’ambiente in cui la sinistra possa competere con la destra come una forza del tutto moderna, portatrice di un proprio progetto, capace di esercitare scelte e non solo di suscitare alleanze.

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