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DIETRO IL FOLCLORE LA POLITICA

16.12.1996

Il congresso di Rifondazione comunista si è chiuso con la conferma che il partito di Bertinotti non è disponibile a recitare una parte subalterna nella sinistra. Inutile dire che fa una certa impressione assistere allo spettacolo di una platea di partito che rivendica insieme al suo leader la propria irriducibilità all’omologazione socialdemocratica, alla logica del capitalismo e al funzionamento del mercato. Bertinotti insomma è l’ultimo esponente che reclama politicamente un’alternativa di sistema, e i militanti di Rifondazione sono una tribù residuale felice della propria diversità. Ma questa iconografia di un partito legato a mitologie tardomarxiste e a romanticismi castristi rischia di fissare un’immagine di comodo. Com’è avvenuto infatti durante questo congresso, che in genere è stato accolto dall’informazione soprattutto nel senso del folclore politico. C’è da dire, piuttosto, che Bertinotti e Rifondazione fanno effettivamente politica, qui e ora. Innanzitutto si va sempre più chiarendo il loro ruolo esplicitamente concorrenziale rispetto al Pds. Il partito neocomunista sarà pure un semplice «indicatore del disagio sociale», come ebbe a dire il ministro Andreatta, cioè un raccoglitore di tutti i tipi di insofferenza verso i partiti, gli schieramenti, i provvedimenti economici. Ma in realtà il consenso raccolto per le ragioni più diverse nella società, non esente da coloriture populiste, viene poi speso politicamente dal vertice del partito in modo lineare, e comunque in funzione fortemente competitiva rispetto a D’Alema. Rifondazione è in crescita nell’opinione pubblica, in quanto può permettersi di rastrellare pressoché tutte le manifestazioni di dissenso e di malessere. Bertinotti poi produce una sua sintesi spettacolare, che gli permette perfino di lanciare al Pds la «sfida per l’egemonia». Dovrebbe essere chiaro che nel lungo periodo Bertinotti non ha speranze, e che il destino della sinistra è quello di trovare un equilibrio che le permetta di proporsi nella sua interezza come soggetto di governo, e non come espressione di antagonismo. Ma nel frattempo Rifondazione può giocare suggestivamente le sue carte, proponendosi come il massimo portatore di contestazione rispetto all’ordine esistente, ma anche come il principale custode della conservazione per ciò che riguarda ad esempio l’assetto costituzionale, e sul piano economico come il garante dello stato sociale, vizi assistenzialistici e corporativi compresi. Proprio per questa combinazione di antagonismo e di conservazione, di rivoluzione e di keynesismo sgangherato, di scontro sociale e di tutela collettiva, Rifondazione comunista è un partito autenticamente postmoderno. Ma dalla sua postmodernità può permettersi di dare la propria impronta a un governo a cui non partecipa (e rispetto al quale ribadisce che vuole tenere le mani completamente libere). Sta di fatto comunque che il governo dell’Ulivo è gradatamente diventato «il governo dell’Ulivo più Rifondazione», e quello che nasceva da una mediazione politica di centrosinistra è diventato sempre più marcatamente un governo «di sinistra». Ogni volta che si chiede a Romano Prodi quale sia stato il peso di Rifondazione nelle decisioni del governo, il presidente del consiglio non nasconde la sua irritazione e nega ogni cedimento. Ma in realtà il compromesso con Bertinotti c’è stato, ed è stato un compromesso continuo. È sbagliato parlare di un «ricatto» complessivo di Rifondazione comunista nei confronti del governo, mentre non è affatto sbagliato parlare di ricatti, al plurale, gestiti politicamente da Bertinotti con l’obiettivo di portare a casa risultati politici. Questo compromesso ha fatto sì che Rifondazione comunista, che predicava una virulenta posizione anti-maastrichtiana, abbia accettato integralmente la prospettiva europea; in cambio ha ottenuto una politica di riaggiustamento praticata con un sensibile incremento del peso fiscale, cioè con le tasse progressive che al segretario di Rifondazione piacciono quasi quanto gli scioperi. Quindi l’«impolitico» Bertinotti, l’apocalittico in versione tv, in realtà non è affatto impolitico. Si muove dalla sua posizione estrema per condizionare il governo e per rivendicare pubblicamente questo condizionamento come un risultato conseguito attraverso la lotta politica. Dopo di che, ciò che risulta curioso è che in questi mesi si sia assistito al delinearsi di un legame via via più forte fra Prodi e Rifondazione. Non è del tutto automatico individuare le ragioni di questa relazione preferenziale, perché è vero che in gran parte dipende dall’interesse contingente del presidente del consiglio, spesso desideroso di smarcarsi dal Pds. Ma al di là dei tatticismi, c’è anche da rilevare certe affinità, certe sensibilità comuni tra Rifondazione e gli «estremisti di centro» del Partito popolare, a cui nemmeno Prodi è insensibile. Sulle questioni istituzionali, come sulla riforma del welfare state, non c’è una distanza grandissima fra Rosy Bindi e Bertinotti. E Prodi amministra questa contiguità implicita nel proprio interesse politico, cercando così di riequilibrare il rapporto con il Pds. È un gioco pericoloso, perché giostrare fra gli opposti è il tipico modo per amministrare situazioni eccezionali, e non la normalità di cui ha bisogno il Pds per dimostrarsi a tutti gli effetti un moderno partito di governo. E quindi non c’è da stupirsi se il sorriso di Prodi al congresso di Rifondazione e la soddisfazione triofale di Bertinotti hanno come contraltare la freddezza di D’Alema, e se questo sentimento freddo vira non di rado verso l’insoddisfazione per il governo.

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