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DUE ANNI SENZA CONFLITTI

01.07.1997

La Commissione bicamerale chiude i suoi lavori, ed è come se il sistema politico tirasse un sospiro collettivo: di sollievo, di scampato pericolo, di grazia ricevuta. Nel suo genere infatti, il documento approvato è un capolavoro di mimetismo: la fisionomia dell’ipotesi di riforma costituzionale varata ieri è la fotografia esatta della politica italiana attuale, una riproduzione perfetta fin nei minimi particolari. L’importante non era che emergesse un vincitore, ma che non ci fosse uno sconfitto. E quindi ecco il semipresidenzialismo temperato, il federalismo depotenziato, il bicameralismo moltiplicato, la legge elettorale ulteriormente complicata, la questione giudiziaria rinviata. Tuttavia, giunti a questo punto sarebbe un esercizio sterile demolire criticamente l’impianto delle riforme. Probabilmente il nostro paese ha perduto il momento magico in cui, nel momento di massima crisi dei partiti, sarebbe stato possibile costruire un’architettura istituzionale innovativa e nitida, svincolata dai condizionamenti di parte e dagli equilibri parlamentari. La politica italiana ha attraversato il suo mare fra due sponde d’acqua miracolosamente rimaste aperte; quando è giunta fortunosamente sulla riva opposta, le acque si sono rapidamente richiuse. Nel santuario della Bicamerale non c’erano «padri costituenti» autorevolmente ispirati dalla divinità delle riforme, bensì professionisti politici faticosamente costretti a trovare un accordo. Chi oggi, fra i censori più aspri, sostiene che questo accordo è peggiore di un fallimento aperto, si dedica a un’esercitazione teorica, o a una manifestazione di giacobinismo gratuito: perché la Bicamerale non poteva fallire. Il contraccolpo di un fallimento sarebbe stato insostenibile per tutto il sistema politico. E quindi la Commissione presieduta da D’Alema è riuscita nel suo intento: ha pagato una serie infinita di mediazioni e ha prodotto ciò che poteva produrre. E dunque piuttosto che guardare al passato, conviene guardare al futuro. Perché il destino delle riforme è tutt’altro che semplice o scontato. Ci sono numerosi esponenti nei partiti che, per una ragione o per il suo opposto, sperano silenziosamente che inoltrandosi nel Parlamento, fra lentezze procedurali e opposizioni opache, la trasformazione istituzionale semplicemente si inabissi, riducendosi a fenomeno carsico. In effetti il cammino ulteriore delle riforme è ancora ben più che difficile. Ma, di nuovo, non si vede con quale credibilità i partiti e gli uomini politici potrebbero presentarsi all’opinione pubblica sulla scorta di un crollo che avvenisse in corso d’opera, con le fondamenta già costruite e i primi mattoni già sistemati. Malgrado non riscuota più l’interesse che aveva suscitato nei cittadini durante l’ondata referendaria, la trasformazione istituzionale è un compito che il ceto politico si è assunto verso i cittadini e che è obbligato a portare a termine. Per avvicinarsi al traguardo, occorre che l’accordo stipulato nella Bicamerale venga confermato e sostenuto in Parlamento da coloro che l’hanno sottoscritto. Non sarà un’impresa facile, perché le Camere sono un formidabile moltiplicatore di emendamenti e di correzioni, ma l’idea di fondo che regge lo schema è piuttosto semplice: si tratta di attraversare i prossimi due anni bloccando i conflitti politici. Dobbiamo avere cioè una transizione «congelata». Massimo D’Alema, Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini hanno il compito di consolidare in Parlamento il compromesso raggiunto nella Bicamerale, agendo affinché i cespugli dei due schieramenti principali non impediscano il cammino. L’accordo comprende inevitabilmente come concetto cardine l’intoccabilità e l’inamovibilità del governo Prodi. Sono molte, come si vede, le pedine da tenere sotto controllo sulla scacchiera, forse troppe. Ma va anche detto che questa classe politica non può rischiare che si consolidi un «fronte del no» alla nuova Costituzione. Il processo innescato dalla Bicamerale comprende infatti un meccanismo delicatissimo, il referendum confermativo che dovrà sottoscrivere la soluzione costituzionale approvata dal Parlamento. È un momento lontano, ma fin d’ora va messo a fuoco che incertezze e conflitti dei partiti non comportano solo un ulteriore peggioramento delle formule istituzionali proposte, ma nel caso di scelte al ribasso incorporano il rischio di un disastroso faccia a faccia fra il popolo sovrano e la classe politica. Non si sottolinea questo particolare per prospettare visioni apocalittiche, ma per porre in rilievo che il lavoro istituzionale non si esaurisce qui. Si è conclusa una fase, ne comincia un’altra; e sarebbe opportuno che, con un aggiustamento di sguardo, i rappresentanti del popolo pensassero non solo al tecnicismo dei compromessi ma anche al momento in cui il popolo esprimerà il suo giudizio.

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