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E’ LA RIFORMA LA VERA ARMA DI D’ALEMA

04.10.1996

Massimo D’Alema prepara il congresso del Pds, e sarà interessante esaminare le sue «tesi» per valutare come il segretario intende plasmare il partito. Perché D’Alema non è un segretario di transizione: è giovane, ha in mano il partito, possiede una certa capacità strategica, e soprattutto è riuscito a vincere le elezioni: se Achille Occhetto aveva avuto il merito di allontanare affannosamente il partito dai calcinacci del muro di Berlino, D’Alema ha compiuto l’impresa «storica» di portare il Pds al governo. Detto questo, non ci vuole molto a capire che il nucleo delle riflessioni di D’Alema è facilmente intuibile. Infatti il segretario del Pds non ha mai nascosto quali sono le sue intenzioni: creare un partito «pesante», una variante aggiornata del modello socialdemocratico, capace di conquistare le quote decisive dell’elettorato in parte grazie all’alleanza con le formazioni centriste, ma soprattutto attraverso una propria autonoma, razionale, realistica proposta di gestione politica ed economica di un paese moderno. È un progetto senza illusionismi, che lascia pochissimo spazio ai progetti leggeri che piacciono a Veltroni, alle ipotesi che vagheggiano un unico partito «democratico» di marca clintoniana. Ma è anche un disegno che in questo momento appare in grave difficoltà, per ragioni contingenti e per ragioni di fondo. Perché per concludere e consolidare la completa trasformazione del Pds, D’Alema deve prima risolvere il problema del rapporto con Rifondazione comunista. Il segretario del maggiore partito italiano non può sopportare in eterno di avere un concorrente a sinistra che guadagna popolarità proprio attraverso l’approfondimento della rivalità con il Pds. La situazione attuale, e il varo della finanziaria lo ha dimostrato in modo bruciante, mette il Pds nella condizione di essere il perno della maggioranza solo in quanto sopporta il peso maggiore della politica economica del governo. Gli altri prendono o prenderanno i meriti, D’Alema si prende la responsabilità effettiva in Parlamento e di fronte all’opinione pubblica. In condizioni simili, è facile prevedere che D’Alema imprimerà un impulso molto deciso alla costruzione del partito «unico» della sinistra. Il ragionamento classico che viene svolto in questi casi dice che lo spettro politico presente nei partiti socialdemocratici europei è sempre stato molto vasto e talvolta comprende, come nel partito laborista inglese, anche frange di stampo massimalista. Si potrebbe concludere che il calcolo di D’Alema è di buona qualità, se non fosse che la realtà sembra di qualità molto inferiore. Il fatto è che i rapporti a sinistra sono già cristallizzati, e non sembra facile trovare il modo per una saldatura tra i due tronconi dell’ex Pci. A Bertinotti e Cossutta non conviene l’unità della sinistra perché dall’estremità del sistema politico hanno un’infinita possibilità di variazioni tattiche. Possono giocare la loro caratterizzazione «antagonista» per condizionare la maggioranza e portare a casa risultati politici concreti, ma possono anche semplicemente opporre veti, farsi vedere nella propria funzione di guastafeste, e comunque esercitare di continuo un ruolo molto superiore alla propria consistenza. Il Pds ha compiuto sforzi notevolissimi per riuscire a presentarsi come una forza politica di tipo europeo. E quindi non è assolutamente nel suo interesse trattare alla pari con Rifondazione comunista in vista della costituzione del partito unico. Anche solo come ipotesi, federarsi in qualche forma con Bertinotti equivarrebbe a perdere qualcosa in credibilità, sul piano interno e internazionale, e di fronte a un’Europa politicamente moderata, ben prima di guadagnare voti sul piano domestico. E quindi il segretario della Quercia non potrà andare molto oltre la mozione dei sentimenti. Perché la persistenza di Rifondazione comunista nella politica italiana è dovuta certamente al fatto che è, come ha detto Nino Andreatta, «un indicatore del disagio»; ma soprattutto alla struttura del sistema elettorale, che offre favorevolissime opportunità a chi non entra nelle alleanze, o ci entra con un piede solo. Sarà difficile per questo che il partito unico della sinistra possa essere creato a tavolino, su base consensuale. D’Alema dovrebbe sapere che il futuro dei partiti e il formato degli schieramenti non è dato da processi politici spontanei, ma piuttosto dalla configurazione definitiva che assumerà il sistema politico-istituzionale. Finora, le regole del gioco, con l’ibrido di formula a un turno corretta da una zattera proporzionale, hanno consentito a Rifondazione di ricattare il Pds, minacciandolo di presentarsi da sola e quindi fargli perdere le elezioni. Domani, con un modulo elettorale più efficiente, dovrebbe essere D’Alema a mettersi nelle condizioni di poter ricattare Bertinotti, minacciandolo di farlo scomparire dalla scena politica. E perciò D’Alema dovrà chiedere al suo congresso non tanto un mandato romantico per aprire l’offensiva diplomatica «con i compagni di Rifondazione», ma un mandato esplicito per chiudere vantaggiosamente la partita della riforma istituzionale. Per poter trattare con i neocomunisti dall’alto della propria forza e non nella consapevolezza continua della propria debolezza.

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