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GIOCO D’AZZARDO AL TESTACCIO

17.07.1997

Il mistero del Testaccio è durato poche ore, facendo vibrare l’aria di tensione, e poi si è sciolto con un colpo di scena plateale. Sembrava impossibile che Di Pietro e D’Alema si fossero incontrati come congiurati solo per confrontarsi accademicamente sulle prospettive delle riforme costituzionali, e difatti la materia di quel dibattito privato era ben altra. Ecco dunque una nuova figura della fenomenologia italiana, il Di Pietro candidato dell’Ulivo, nel collegio «sicuro» dove era stato eletto Pino Arlacchi. Scende sul tavolo l’ultima carta, mai giocata, sempre incombente, della transizione politica. È un evento importante. Ed è un evento controverso, in grado di scatenare dissensi anche dentro la coalizione di centrosinistra: perché riesce molto discutibile, per chi è alieno da impulsi giustizialisti, giudicare normale la candidatura parlamentare di un uomo coinvolto in una vicenda giudiziaria da cui dipende la sua onorabilità. C’è un collegamento così facile, così immediato, fra la nuova avventura politica di Di Pietro e i vantaggi che ne può ricavare in termini di autodifesa, da rendere censurabile perfino sul piano della decenza estetica l’accordo del Testaccio. Ma fin qui siamo sul piano del gusto o del galateo politico, di criteri impalpabili. Mentre la candidatura di Di Pietro non è un avvenimento mondano da trattare in chiave di buona o cattiva educazione pubblica: per questo risultano francamente sconfortanti le ricostruzioni che cominciano a circolare, dalla proposta gentilmente formulata da Arlacchi all’atteggiamento pronubo di Prodi, in un clima buonista in cui nell’Ulivo si parla dell’impegno politico dell’ex pm come di un servizio alla collettività, e Di Pietro parla in modo ispirato della propria volontà di «rafforzare l’ala moderata dello schieramento». Storie. Operazioni di questo tipo non si fanno per bontà o per distrazione. La candidatura di Di Pietro è una decisione politicamente impegnativa, che si avvale cioè di una decisione consapevole di D’Alema. È un calcolo, o un complesso di calcoli. Il primo di essi consiste probabilmente nel considerare che Di Pietro è meglio averlo amico che nemico: le vicende giudiziarie solo un’altalena, oggi il protagonista di Mani pulite è in difficoltà, ma domani potrebbe andare in crisi il suo avversario, cioè Berlusconi. Tanto vale giocare la propria scommessa e mettersi in casa Di Pietro. Ma, così facendo, D’Alema compie un salto qualitativo nella sua strategia, anzi, un brusco scarto di lato. La cooptazione di Di Pietro infatti porta nel cuore della politica la guerra della giustizia. Il segretario del Pds sceglie di sponsorizzare il contendente storico di Berlusconi, lo conduce dentro le proprie file, ne fa inevitabilmente un simbolo politico. E quindi sfida la sprezzante reazione del Cavaliere. È un gesto che significa: nemici come prima, come sempre, più che mai. Che cosa ha indotto D’Alema a questo passo? Pensare che un politico iper-realista come il segretario della Quercia possa farsi trascinare da una deriva giustizialista non è credibile. Fra i suoi complessi calcoli avevamo visto realizzarsi l’accordo con Berlusconi e il Polo che ha fatto da architrave al progetto della Bicamerale, attraverso un rispecchiamento reciproco di legittimazione politica. Bene, è concepibile che D’Alema sia disposto a gettare nella spazzatura quell’accordo solo per mettere in squadra un uomo e la sua presunta popolarità politica? È possibile che per lui il compromesso costituente, a cui si è adattato a fatica, accettando sconfitte e subendo lezioni professorali, possa valere meno di un candidato nel collegio Firenze-Mugello? La conclusione di questa storia sembra già scritta: essendo la riforma della giustizia il punto più delicato del processo di riforma, la scelta di candidare Di Pietro può significare la decisione di stracciare i patti e di tornare alla guerra guerreggiata. Può darsi che D’Alema lo faccia a ragion veduta, sfidando anche i giudizi di «insensatezza» che gli rivolge Bertinotti e quelli di inopportunità che gli rivolgono i Verdi. Oppure può darsi che sia un’altra prova del suo esasperato tatticismo, di una trasparente volontà di trasformare il Pds in un’organizzazione «pigliatutto», in un oggetto a intensità ideologica irrilevante. Sia come sia, il «calcolo Di Pietro» in realtà è un azzardo. E non si tratta di un azzardo isolato, su cui ci si gioca la posta di una sola puntata. È un azzardo che può fare saltare tutti i tavoli su cui D’Alema ha giocato. Poco male, potrebbero dire i suoi avversari. Malissimo, diranno invece tutti quelli che nella mossa di oggi non vedono solo una scommessa arrischiata, ma piuttosto l’innesco della mina che può fare saltare la strada che doveva condurre l’Italia, dopo le sue indefinibili rivoluzioni, alla normalità.

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