Comunque lo si consideri, «latte bollente» è un maledetto imbroglio. Lo è innanzitutto perché la questione delle quote del latte ha radici che affondano nella scadente qualità dell’azione italiana al livello europeo, che ha dato luogo nel tempo a un succedersi di approssimazioni fallimentari e di compensazioni affannose, di errori marchiani e di trafelati tentativi di soluzione. Adesso invece il caso appare effettivamente irrisolvibile: dato che l’unione europea non fa sconti e conferma con vigore il divieto ai governi di assumersi il costo delle multe, vengono meno le classiche risorse della discrezionalità clientelare. Si esaurisce quindi la combinazione di inefficienza gestionale e di generosità risarcitoria; scompare la possibilità per l’esecutivo di correggere le distorsioni provocate dagli errori storici spostando a carico della collettività il pagamento delle multe per la sovrapproduzione. L’imbroglio oltre che maledetto è anche dannatamente complicato, perché riguarda solo una parte minoritaria dei produttori (meno del 15 per cento del totale), cosicché ogni tentativo di soluzione potrebbe assumere tratti di iniquità rispetto alla maggioranza che si è attenuta alla regola. Ma se si esce dall’aspetto contingente della protesta che ha bloccato Milano, la guerra del latte assume caratteristiche assai più insidiose di quelle di una semplice protesta corporativa contro regole non rispettate e contro le sanzioni relative. Su questo piano, infatti, è arduo dire qualcosa in più rispetto a quanto ha dichiarato il ministro Pinto: quota produttiva «insufficiente, ingiusta e insopportabile», ma regole da rispettare e multe, per gli allevatori, da pagare. Basta spostare invece il punto di vista per accorgersi che «latte bollente» rappresenta per la prima volta, e dunque con una evidente forza simbolica, un conflitto fra settori produttivi nazionali e unione europea. Ceti che finora erano stati protetti si trovano all’improvviso senza protezione, neanche quella assicurata malamente dalle furbizie; e nello stesso tempo viene messa allo scoperto anche la fragilità della costruzione europea, dato che affiora l’implausibilità di pagare multe in danaro sonante a una sovranità remota e impalpabile come quella di Bruxelles. Ci sono altri settori produttivi che stanno già scontando l’esposizione alla concorrenza determinata dall’integrazione sempre più stretta del mercato europeo. Ed è probabile anzi che nei prossimi anni la principale questione italiana sarà il conflitto strisciante fra chi ha perso la protezione, e deve competere con le sue forze, e chi invece continuerà a potersi annidare in contesti protetti. La guerra del latte unisce a questa dimensione un elemento ulteriore, cioè la concentrazione territoriale nel Nord, che ha reso possibile alla Lega, Bossi in testa, di calvalcare la protesta degli allevatori come se fosse cosa sua. In sé la protesta di Linate costituisce una spinta effettivamente secessionista, solo che la secessione è diretta sia contro Roma sia contro l’Europa. È la rivolta di un pezzo di società che ha visto disgregarsi il proprio referente politico, la grande madre democristiana, e che ora viene usata: dalla Lega, che cerca di farne l’avanguardia del disagio del Nord; e anche da Alleanza nazionale, che al momento buono non fa mancare la propria voce nazional-protezionista contro le inique sanzioni. Sono queste due forze politiche che possono trarre qualche vantaggio dalla protesta dei produttori: ma non bisognerebbe dimenticare che in questi casi alla vittoria o al guadagno degli strumentalizzatori corrisponde in genere la sconfitta, e la perdita, degli strumentalizzati.
19.01.1997