C’ era una volta la lotta di classe, che tagliava in due la società. Ma oltre a dividere il principio di classe univa: proiettava sul futuro l’idea di una comunità ricomposta. Iscritto al sindacato ("cinghia di trasmissione" del partito), l’immigrato meridionale nelle fabbriche del Nord non era un dropout metropolitano, bensì un compagno. Ma tutti i partiti di massa, Dc naturalmente compresa, promuovevano valori universalistici, sintetizzavano una proposta rivolta all’ insieme della collettività. Il suggello operaio sulla città futura conteneva la minaccia della dittatura di classe, mentre lo sfondo della pax democristiana era l’interclassismo: ma nessuno defezionava dallo schema dell’universalismo. Il primo sintomo della defezione avvenne con l’invenzione del Polo delle libertà, che racchiudeva (anche se lo sapevano soltanto i professori come Antonio Martino) diversi cromosomi neoconservatori, e poteva preludere a una mobilitazione della borghesia fondata su un’esplicita rottura del patto che era stato mediato dalla Dc. Solo che, per fare il pieno alle elezioni del 1994, Forza Italia dovette metter su il carrozzone con la Lega, Alleanza nazionale e i postdemocristiani, con tanti saluti alla radicalità coerente di un progetto liberista. Non appena fu chiaro che non ci sarebbe stata una destra, magari un po’ cattiva, disposta a radicalizzare il conflitto fra gli interessi, apparve evidente di riflesso che anche la sinistra avrebbe avuto un alone confuso. Al punto che uno studioso di sinistra oltranzista come Marco Revelli sostiene che quasi tutto lo spazio politico italiano è occupato in realtà da due destre, una populista e plebiscitaria (il Polo), l’altra tecnocratica ed elitaria (l’Ulivo). Diagnosi brillantemente apocalittica, quindi forzata. Sta di fatto tuttavia che proprio l’immagine sfuocata dei due principali schieramenti, ciò che ha inibito la possibilità di selezionare precisamente gli interessi da rappresentare, ha avuto perlomeno due effetti. Da un lato, ha reso sia il Polo sia l’Ulivo due partiti-tutto, ancora pochissimo coerenti. Dall’ altro, la perdita di riferimenti politici, classici, ha messo in libertà gli spiriti animali della società nazionale, scandendo un clamoroso rompete le righe. Si è aperta una vistosa crepa nel vecchio contratto sociale. E’ saltato il compromesso redistributivo. Durante il nostro recente ancien régime, si concedeva al lavoro autonomo evasione fiscale e alti rendimenti sui Bot in cambio di consenso: e si tartassava il lavoro dipendente in cambio di tutela, cioè assicurando welfare state. Adesso invece risuonano squilli di rivolta fiscale, e pochi trovano fantastico un prodigio della nostra epoca: che a organizzare i "tax day" siano i potenziali evasori, cioè coloro che hanno quanto meno la possibilità di pasticciare con vendite e prestazioni in nero; mentre i tartassati effettivi, coloro che non hanno una possibilità nemmeno teorica di dribblare il fisco, tacciono, incupiti dall’ impoverimento del lavoro dipendente pilotato dalla concertazione fra governo e sindacati. Il fatto è che si è liberalizzato l’ambiente esterno, come nel caso dell’equo canone, ma interi ceti sono rimasti prigionieri della gabbia precedente. Per questo dentro le fabbriche del Nord si trovano operai da un milione e mezzo al mese, veri "working poor" italiani, che guardano con languore alla destra "sociale" di An, fiutando una promessa di tutela, altro che neoliberismo. Nella campagna elettorale di due anni fa il ritornello di Forza Italia faceva da colonna sonora all’ annuncio del miracolo: il milione di posti di lavoro, gli splendori dello sviluppo a ciclo continuo. Col risultato che i poveri votarono per i ricchi, con un caleidoscopico rimescolamento degli interessi dettato dall’ utopia di trasformare il Paese in un’unica classe agiata. E ora? Che effetto farà a quei ceti medi sempre più contigui alla soglia della povertà l’esibizione dello spaccato antropologico rivelato da Stefania Ariosto? Cioè la visione di quel mondo molto postmoderno fatto di circoli esclusivi, barche, casinò, boutique e affari improbabili, e professionisti miliardari, e politica, pranzi, cene, e donne… Di nuovo la sindrome Beautiful, con il miraggio dell’"enrichissez-vous", oppure una disillusione totale? Ricchezza contro semipovertà, da una parte. E, dall’ altra, rancore di chi rischia contro chi è garantito, insofferenza per la comoda certezza dell’impiego pubblico rispetto all’ insicurezza del lavoro privato, risentimento del disoccupato meridionale per l’opulenza del Nord. Insomma, la lotta di classe si è disintegrata e polarizzata in una quantità infinita di frustrazioni contrapposte. Per sapere come andrà a finire, o più modestamente chi vincerà le elezioni, si tratterà di capire chi sarà in grado di fare più efficacemente l’imprenditore dell’ invidia sociale.
04.04.1996
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