Comunque la si giudichi, la dichiarazione con cui Gianfranco Fini ha offerto la disponibilità di An a riconsiderare la divisione del Csm in due sezioni costituisce uno dei pochi atti di un sicuro significato politico emersi negli ultimi tempi all’interno del Polo. Nelle parole pronunciate sabato al congresso dell’Associazione nazionale magistrati c’è infatti da cogliere una consapevolezza del proprio ruolo e soprattutto un piglio ormai inusuale per il centrodestra. Ma nello stesso tempo, mentre corregge significativamente la linea del Polo in tema di giustizia, viene da chiedersi quale sia il suo disegno, se abbia un obiettivo istituzionale e politico già precisato, e alla fine se abbia in mente un modello di partito su cui profilare An. Appare evidente che il presidente di An, dopo avere accettato malvolentieri il «viottolo» della Bicamerale, sta puntando gran parte del suo capitale politico proprio sul progetto formulato dalla Commissione. Silvio Berlusconi smentisce con fastidio che il suo principale alleato abbia un «asse» privilegiato con D’Alema, ma resta il fatto che mentre Forza Italia non ha un punto di vista sull’esito delle riforme costituzionali, Fini invece ce l’ha, e piuttosto preciso. Fini percepisce con nettezza che lo sfondamento vittorioso a cui il suo partito sembrava destinato probabilmente non avverrà. Gli assegnano limiti fisiologici le sue origini politiche, per quanto rivedute e corrette, una cultura oscillante fra Evola e Popper, una collocazione politica deliberatamente situata fra la destra e l’estrema destra (che gli impedisce di proporsi come partito generalista), e un ceto politico, soprattutto in periferia, che gi fa da zavorra. La riforma costituzionale è il primo strumento per conseguire una legittimazione definitiva. Quindi Fini non può mancare l’occasione. Deve arrivare in fondo al processo costituente costi quello che costi. Finora il prezzo era stato stato soprattutto un presidenzialismo più che dimezzato e molto confuso (oltretutto criticato da Domenico Fisichella, cioè il più accreditato costituzionalista di An); adesso sul piatto della bilancia viene posta anche la posizione sulla giustizia, che fa piazza pulita delle velleità più facinorose che allignano nel centrodestra contro la magistratura. Dunque, asse con D’Alema o no, in questo momento il leader di An è uno dei più solidi puntelli dell’incerto disegno partorito dai bicameralisti: e lo è perché gli conviene anche sotto una luce strettamente politica. Il prodotto della Bicamerale infatti non è soltanto una nuova architettura costituzionale, bensì un dispositivo che fotografa gli schieramenti attuali e li «fissa», cioè tende a rendere improbabili scomposizioni e ricomposizioni del bipolarismo attuale. Si può pensare che Fini giudichi irrimediabile la fine del Polo, e che consideri in tutta la sua fragilità la leadership di Berlusconi anche per ciò che riguarda Forza Italia: proprio per questo deve anche agire per rendere impossibili i movimentismi di centro come quelli di Cossiga (il quale di converso non nasconde affatto l’idea di marginalizzare An e di proporsi come competitore del Pds da centro). Berlusconi risponde criticando tutti i «pentitismi» politici, quello di An ovviamente compreso, e soprattutto lanciando l’idea di una riforma della legge elettorale in senso proporzionale: cioè proprio il modo per rimettere in movimento tutto il sistema politico, scompaginare alleanze, indurre nuove aggregazioni. Invece Fini per ora ha bisogno di certezza, di prevedibilità. Perché stabilizzare il sistema dei partiti attraverso il lavoro costituente è la condizione primaria anche per poter mettere mano al suo, di partito: sostanzialmente per riprogettarlo. A quanto si sa, nelle prossime assise di Verona non assisteremo a una «revisione della revisione» di Fiuggi. Non si vedrà una ridefinizione della storia e del fascismo o a un nuovo giudizio su Salò. Fini sa che il legame con la sua storia è solo uno degli aspetti che limitano le potenzialità di An: è l’elemento negativo in più che si aggiunge alle contraddizioni interne dell’esperienza politica postfascista. Fini e Fisichella, a Verona, lanceranno un partito di intonazione nazional-liberale. Ma si tratterà di vedere se uno statuto ideologico-culturale rinnovato sarà in grado di convogliare tutto il partito. An infatti non è mai riuscita a chiarire efficacemente dove si situa il pendolo fra le sue componenti politiche. Si è sempre divisa tra una vocazione d’ordine e una di lotta, fra un’impronta di destra europea simil-gollista e una caratterizzazione ribellista, tra un thatcherismo d’occasione e un assistenzialismo storico a cui si aggiungeva talvolta un’eco di destra «sociale e cristiana». La sintesi era stata possibile soltanto in tempi di successo elettorale, perché le vittorie e la conquista del potere costituiscono il miglior mastice per qualsiasi partito. Dopo l’insuccesso alle elezioni amministrative, Fini ha abbattuto la dirigenza di An, facendo capire a tutti che «il partito sono io», come leadership, ideologia e immagine. Ma nello stesso tempo non è riuscito a tenere Alleanza nazionale su binari sicuri. Quello che emerge sulla scena pubblica in questi giorni è infatti un partito che insegue tutte le proteste, si erge a tutela dei protezionismi, e che su un caso di grande impatto popolare come la vicenda Di Bella cerca di guadagnare consenso presentandosi come l’imprenditore politico del medico modenese (la dimensione anti-istituzionale dell’attività pubblica di An come fautrice delle terapie anticancro di Di Bella meriterebbe analisi critiche molto più approfondite, proprio in quanto è l’espressione di una travolgente inclinazione populista). Fini sembra percepire con chiarezza quale dev’essere la strada da compiere. Ha rinunciato all’egemonia sul centrodestra proprio perché non aveva un pensiero egemonico da proporre. Ha in mente un partito senza eccessi, garantito dalla legittimazione costituente e stabilmente collocato nella sua nicchia elettorale: una nicchia non piccola e non grande, dalla quale potrà giocare utilmente sul campo politico. Resta da vedere se, stando all’opposizione, riuscirà a plasmare tutte le anime di An e a indurle ad attendere senza impazienze la ristrutturazione del centrodestra. Perché l’alternativa alla pazienza costituente sarebbe solo l’impazienza ribellistica: e Fini sa benissimo che per le sue ambizioni di lungo periodo sarebbe esiziale restare avvolto nei panni di capo di un partito dei Cobas.
02.02.1998