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IL CETO MEDIO SI DISSOLVE NELLE TRAPPOLE DEL WELFARE

22.11.1997
ECONOMIA
ANALISI - POLITICA E SOCIETA'

Spina dorsale del paese o aggregato parassitario? I ceti medi sono una di quelle figure convenzionali che si usano per indicare la maggioranza del Paese, uno stile di vita prevalente, comportamenti socialmente dominanti. Tutti e nessuno, insomma; qualcosa di simile alla galassia dei «moderati» in politica. Ma con una caratterizzazione lievemente ma sensibilmente negativa: si dice ceti medi e si forma l’idea di una stratificazione amorfa, un macchia d’olio che galleggia sulla società. Ceti medi sotto tiro. Medi e spensierati. Medi e spendaccioni. In due interviste pubblicate sulla Stampa giovedì e venerdì, Gad Lerner ha raccolto la severa riflessione critica prima di Giuliano Amato e poi di Massimo D’Alema. Divisi forse sull’effettivo potenziale riformista del centrosinistra, ma accomunati in un giudizio crudo sui ceti medi. Dice Amato: «Vi è un’anomalia nei ceti medi italiani, gli unici al mondo che hanno consumi simili ai ricchi. Altrove la frugalità è una virtù… Non faccio del moralismo sui telefonini. Ma è chiaro che se proponiamo ai ceti medi italiani di autogestirsi liberamente il risparmio in vista della vecchiaia, ciò comporterà una riduzione dei livelli di consumo quotidiano. E che sarà mai, un’estate senza crociera? Meno file al ristorante?». Il segretario del Pds sottoscrive: «È vero che il ceto medio italiano è ricco», ed è lo specchio di un Paese «conservatore» perché «abituato fino a ieri a vivere al di sopra delle proprie possibilità», propenso a difendere lo status quo nel nome di «un diffuso tessuto corporativo e particolaristico». In realtà i ceti medi dovrebbero essere tutt’al più una generica concezione statistica. E invece appaiono intrisi di valori negativi, o non-valori. Qualche mese fa Giuseppe De Rita ha pubblicato un volume, Intervista sulla borghesia in Italia, in cui sosteneva che nel nostro Paese non esiste un vero ceto borghese: c’è invece una «enorme bolla di ceto medio», priva di quelle nervature e di quei canali di selezione che danno luogo invece alla borghesia classica. Eppure non troppo tempo fa, all’inizio degli anni Novanta, Romano Prodi glorificava il «modello renano» sulla scia dell’analisi-manifesto dell’economista Michel Albert (Capitalismo contro capitalismo). Cioè capitalismo europeo contro capitalismo anglosassone. Stabilità sociale contro supermobilità. Possibilità di investimenti «a redditività differita», come si dice oggi, contro l’obbligo a rendimenti immediati. Ma soprattutto, a vantaggio dei «renani», una prestazione redistributiva di lungo periodo tale da creare ceti medi più estesi: con l’idea naturalmente che ciò fosse uno strumento di riduzione delle differenze e di distribuzione del benessere. La formula italiana per temperare il vantaggio sociale attraverso la redistribuzione del reddito è stata in genere di tipo compromissorio. In ogni caso ha predisposto la tutela senza mai riuscire a creare slancio. «Meno ai padri e più ai figli», ha sostenuto in un libro recente e provocatorio uno dei consiglieri economici di D’Alema, l’economista Nicola Rossi: occorre sbloccare la società, darle dinamismo, puntare sulla formazione, selezionare gli interessi da premiare rispetto a quelli da colpire. In una popolazione che subisce la deriva demografica dell’invecchiamento la tesi è sembrata provocatoria anche perché colpisce una platea strategica di elettorato. Ma anche uno dei migliori politologi della nuova generazione, Maurizio Ferrera, che ha vissuto l’esperienza frustrante della commissione Onofri, non si stanca di segnalare le «trappole del welfare», quei meccanismi che contribuiscono a irrigidire la struttura sociale e che vanno aggrediti per liberare risorse. Il fatto è che la propensione al consumo privato che irrita Amato non cade dal cielo. Si è assistito a un processo a doppia dinamica. Da un lato una «proletarizzazione» dei ceti medi, avvertibile soprattutto nel settore impiegatizio, nell’amministrazione pubblica, fra gli insegnanti (il sociologo Alessandro Cavalli sottolinea che non si sono ancora valutati i costi sociali derivanti da un’istruzione affidata a un ceto mortificato, che ha maturato un forte risentimento verso lo Stato). Lo schiacciamento verso il basso dei salari fa sì che oggi una famiglia operaia difficilmente potrà consentirsi più di un figlio, dato oltretutto che tutte le ricerche mostrano che il «costo» dei figli si ritaglia quote sempre crescenti nel bilancio famigliare; ma anche una coppia di insegnanti farà una fatica improba a mandare i figli sino all’università. Dall’altro lato, ecco una proletarizzazione analoga anche dei consumi, che sono divenuti progressivamente disponibili anche alle fasce di basso livello di reddito: vacanze fuori stagione e a prezzo contenuto per gli anziani, viaggi popolari a Santo Domingo, charter disponibili per tutte le tasche. Sta di fatto che la curva dei consumi ha sempre il profilo all’insù (l’unico buco negli ultimi quindici anni è del 1993, calo del 2,4 per cento; perfino il 1996, che sembrava essere un’annata raggelante ha conosciuto secondo l’Istat una seppur piccola crescita (0,7 per cento). La contrazione delle risorse determina redistribuzioni nei consumi: si spende meno per l’alimentazione, anche in seguito ai prezzi della grande distribuzione; meno in vestiti e più in viaggi. Amato descrive il ceto medio come una fascia sociale dai guadagni limitati ma che ha un tenore di spesa da ceti superiori. La condizione (e il prezzo) di questo miracolo perverso è rappresentato da un welfare forzoso, sottratto alla responsabilità individuale, che sovraccarica lo Stato. D’Alema critica il particolarismo corporativo che crea sacche di privilegio. Resta da dire che i ceti medi sono e saranno il principale riferimento sociale per gli schieramenti politici che puntano al governo. E allora, o si ha alle spalle la rivoluzione thatcheriana o non la si ha. Tony Blair può puntare esplicitamente sull’istruzione e su obiettivi «postmaterialisti». E i suoi ispiratori, come Anthony Giddens, possono teorizzare il «centro radicale» e un’era della «post-scarsità», in cui è una società sostanzialmente libera dai vincoli economici a plasmare autonomamente forme e ritmi dello sviluppo. Oppure le riforme possono essere solo molto graduali, molto lente, non risolutive, continuamente ridiscusse. Il ceto medio italiano è stato creato anche dal ceto politico che oggi governa. Quindi rivoluzionare il profilo di un’Italia educata ai consumi «irresponsabili» è un’impresa che richiede una credibilità inedita. Il dilemma forse è tutto qui.

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