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IL DILEMMA DELLA BICAMERALE

07.01.1997

Sarà che la parola «bicamerale» evoca il freddo e la polvere di misere stanze d’affitto in cui albergherebbero i Travet delle riforme, anziché il clima euforico di cui sarebbe portatrice l’Assemblea costituente, ma sta di fatto la commissione parlamentare che dovrebbe – forse, chissà – procedere al ridisegno costituzionale sembra riscuotere ormai solo un modesto interesse nell’opinione pubblica. Il tema delle riforme costituzionali è tornato in esclusiva al ceto politico, e sembra piuttosto difficile che possa rientrare al centro di una discussione corale della collettività. Eppure, proprio questo aspetto di scarso interesse pubblico non è affatto irrilevante, perché dimostra innanzitutto che il tempo delle rivoluzioni è finito. E di conseguenza viene a cadere il principio secondo cui a una situazione eccezionale occorre rispondere con una soluzione eccezionale. C’è stato probabilmente un momento nel nostro paese, fra il 1992 e il 1996, in cui il fallimento della «democrazia dei partiti» appariva tale da trascinare con sé le istituzioni. All’apice della crisi, l’unica via d’uscita era apparsa a diversi osservatori l’elezione popolare di un’assemblea che preparasse a caldo il nuovo contratto civile fra gli italiani. Ma il 1997 non si apre sotto il segno di catastrofi già scritte, bensì sotto un segno di incertezza. Incertezza tesa allo spasmo, che coinvolge tutti gli aspetti della vita nazionale: dall’economia, sottoposta a uno stress acuto, alla questione giudiziaria, sulla quale il ministro della giustizia Giovanni Maria Flick sta provando a scottarsi le mani come se le scottarono i suoi predecessori. Altrettanto incerto è il sistema politico, a causa di leggi elettorali che consentono la sopravvivenza ricattatoria di «riserve indiane», ma ripetute prove elettorali continuano a dimostrare che in genere il meccanismo bipolare è stato assimilato dai cittadini-elettori ben al di là di quanto avrebbero meritato per coesione e coerenza i due Poli maggiori. Quindi l’incertezza che grava sull’Italia è una situazione-crinale, dalla quale può nascere da un versante un virtuoso percorso di razionalizzazione, e dall’altro anche un sentiero di decadenza. Se si accetta questa premessa, la definizione dell’Assemblea costituente come unico e insostituibile strumento riformatore appare come una scelta soprattutto ideologica. Occorrerebbe spiegare infatti per quali ragioni l’eventuale assemblea costituente potrebbe rispecchiare equilibri politici diversi da quelli attuali, e perché la sua iniziativa dovrebbe sfuggire alle logiche di compromesso che si imputano preventivamente alla Bicamerale. E anche per quale magico artificio un’assemblea eletta in termini proporzionali riuscirebbe a non riprodurre tutte le differenze che esistono attualmente tra le forze parlamentari. È evidente piuttosto che la scelta per la Costituente fa corpo con un’ispirazione di fondo di tipo presidenzialista e con una concezione volta a reimpostare tutta la carta costituzionale in termini individualistico-liberali anziché personalistico-sociali. Che sono tutte – presidenzialismo e liberalismo – vocazioni legittime, ma non si vede per quale motivo potrebbero emergere nitidamente e maggioritariamente in un’assemblea eletta con il metodo proporzionale. Questo non l’hanno spiegato né Gianfranco Fini né Mariotto Segni, i quali sostengono che il presidenzialismo è maggioranza nel paese, e non nel parlamento, ma senza conforti empirici. La propensione a favore della Costituente rivela spesso anche il desiderio di un rimescolamento complessivo, il desiderio di dare un calcio alla scacchiera, nella speranza che poi qualcosa possa succedere. Può esser qualcosa che metta in discussione l’equilibrio su cui si regge il governo, oppure che metta lo scompiglio negli schieramenti come sono finora assestati. È necessario quindi uscire dagli equivoci. Gli equivoci di Fini (sottolineati da un esperto come Domenico Fisichella), dato che il leader di An è abituato a mettere sempre un grammo in più sulla bilancia per rendere incerta la pesata e quindi introdurre nuovo disordine nel sistema: disordine che naturalmente Fini suppone meglio curabile con soluzioni straordinarie, con «la partecipazione dei cittadini ad una fase autenticamente costituente», e via in crescendo. E sarà bene che si esca dalle incertezze strategiche alimentate da Silvio Berlusconi, firmatario per la Costituente ma non del tutto ostile alla Bicamerale, così com’è sempre curiosamente in bilico fra un passato di rivendicazioni integraliste del maggioritario e un presente di accordi «alti e nobili» per il bene del Paese. Mancano, all’elenco degli equivoci, quelli intrinseci al centrosinistra. Perché se nell’Ulivo e dintorni ci fosse la stessa convinzione che anima D’Alema, si potrebbero valutare le differenze specifiche sul tema delle riforme come naturali diversità di ispirazione politica, destinate a entrare nell’arena delle mediazioni politiche per essere composte. Ma invece si ha l’idea che nel centrosinistra, a partire dal presidente del consiglio, ci sia stata verso le riforme costituzionali una certa sospettosità, che alla fine si è trasformata disinteresse, e potrebbe diventare ostilità. Insomma la certezza che non convenga svegliare il can che dorme, e neppure quindi sacrificare la logica compromissoria del governo di oggi alla razionale concentrazione di potere resa eventualmente possibile, ma domani, dalle riforme. Degli equivoci in gioco, quest’ultimo non è il minore. Anzi, poiché rischia di vanificare la strada verso la Bicamerale, che è lì, a portata di mano, minaccia anche di essere l’inciampo più pericoloso, quello che risolverebbe ironicamente il dilemma fra la Commissione e l’Assemblea nel modo più stupidamente salomonico: nessuna delle due.

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