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IL PARTITO DI MANI DECISE

25.07.1996
INTERNO

Ieri sulla variante di valico del tratto autostradale fra Bologna e Firenze si è sviluppato un caso politico esemplare, che ha mescolato ideologia, politica e gestione facendole scontrare fin quasi all’impazzimento. Dopo gli scontri del giorno prima fra il ministro dei lavori pubblici Antonio Di Pietro e il ministro dell’ambiente Edo Ronchi, con corollario di conflitti fra ministri e sottosegretari, i Verdi hanno creato la brillante formula della loro «autosospensione» dalla maggioranza. Nello stesso tempo accusavano Antonio di Pietro di procedere a testa bassa su un progetto massimalista per mettere in difficoltà Romano Prodi e quindi di usare la variante come un detonatore politico. Nello stesso tempo tutti, ministri e no, dicevano la loro, compreso il segretario della cgil Sergio Cofferati, che stabiliva una volta per tutte che la variante di valico «non è una priorità». Poi con il passare delle ore, la situazione cominciava a essere trattata sul piano negoziale. Dichiarazioni non troppo elusive di Prodi, variantista da anni, secondo cui «la variante di valico ci vuole», naturalmente con obbligatoria salvaguardia del paesaggio e delle «bellezze del nostro paese». Poi riunioni, trattative, ammorbidimenti, e infine una riunione di lavoro «in piena sintonia» fra i due ministri contendenti. È possibile quindi che una soluzione sia già stata individuata, e che il prossimo consiglio dei ministri possa prendere una decisione che non scontenti nessuno. Ma sarebbe sbagliato pensare che si sia trattato di un episodio isolato e determinato solo dall’insofferenza di una componente della maggioranza, i Verdi, rispetto alle pratiche, giudicate decisionistiche e antiambientali, di Di Pietro. E sarebbe insufficiente anche giudicare la posizione dei Verdi come la classica manifestazione di insofferenza per tutto ciò che sa di cemento. Il caso della variante di valico infatti misura due concezioni politiche opposte ed entrambi presenti nella maggioranza che sostiene il governo. L’una è quella che ha in Di Pietro il suo esponente più spettacolare, ma che per altri profili è il riflesso e l’eredità della cultura del Pci padano e appenninico, pragmatico e riformista. Potrà sembrare singolare che un moderato come Di Pietro possa trovare corrispondenze con un’ala del Pds; ma resta il fatto che sulla variante fra Bologna e Firenze si esprime da entrambe le parti quella convinzione secondo cui «se c’è da fare una cosa si fa», passando con la tradizionale sbrigatività «migliorista» sopra opposizioni e resistenze. L’altra concezione in ballo è invece quella più ideologica, propria dei Verdi ma anche di alcuni settori del Pds, che non è rivolta tanto al fare e al risolvere quanto al proporre problemi di compatibilità, con scarsa disponibilità ad accettare o indicare soluzioni praticabili: ed è una concezione che si manifesta facilmente nel rifiuto a modelli (ma poi anche a progetti) giudicati volta per volta insostenibili. In genere infatti la vulgata ecologista risponde ai problemi che sono qui e ora indicando alternative globali nei modelli di sviluppo. Ma fin tanto che si tratta di contrapposizioni intellettuali, ogni posizione è lecita. Si può sottoscrivere o viceversa contestare l’opinione di Di Pietro, per il quale la sensibilità ecologica la si ha o non la si ha, ma non la si può istituzionalizzare in organi di governo, e si può apprezzare o no la posizione spesso radicale dei settori ambientalisti. Ma in questo caso si tratta di un problema di governo, non di una disquisizione di teologia politica. E la variante di valico, malgrado l’opinione di Cofferati, è una priorità nazionale, come sa chiunque abbia affrontato in auto almeno una volta l’avventura dell’attraversamento infernale dell’Appennino fra Bologna e Firenze (e come sapevano e sanno del resto gli amministratori emiliani e toscani, come sapeva e sa Pierluigi Bersani, ex presidente, efficientista, della Regione Emilia-Romagna). Dunque siamo in presenza di un conflitto serio, comunque vada a finire. Perché la sensazione è che su questo caso il governo si giochi una quota importante di credibilità. E non solo. Si gioca anche la possibilità che la tecnostruttura prestata dal Pds al governo Prodi, proprio i Bersani e i Burlando, riesca a dare una proprio impronta all’esecutivo. Per questo la posta in gioco è alta. Probabilmente sulla questione della Bologna-Firenze si capirà se questo governo risente dei vincoli di tutti i governi di coalizione, sottoposti ai veti degli alleati anche più marginali, e quindi capaci di offrire ai grandi problemi solo soluzioni di taglia minore, oppure se si afferma una direttrice più precisa, una tonalità di gestione dai caratteri più marcati. Potrà anche sembrare uno stile di lavoro e un complesso di scelte fin troppo semplice, quello che traspare da un lato dalle intenzioni di Di Pietro, e dall’altro dai progetti dell’ala manageriale del Pds: investimenti, opere pubbliche, progetti «pesanti». Il che in ogni caso dovrebbe fare da volano all’economia, sostenere settori imprenditoriali depressi, produrre occupazione. E se poi se l’alternativa è quella di bloccare progetti con altri progetti, contrattando su aspetti essenziali per ridurli a inessenziali, e quindi riuscire a trasferirli lentamente fuori dall’agenda delle priorità, sia benvenuto il partito di Mani decise.

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