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IL RISCHIO DELLA NON POLITICA

18.11.1996
INTERNO

Nell’offensiva della piazza che Polo e Lega, ognuno per suo conto, hanno scatenato contro il governo, colpisce il fatto che non esistono fattori «caldi» del conflitto, emergenze individuate, conflitti specifici. C’è la Finanziaria, come oggetto del contendere, ma in realtà la legge di bilancio è solo un pretesto dello scontro. Esiste piuttosto una condizione essenziale di incompatibilità fra la maggioranza e le forze che gli si oppongono: una condizione di fondo che divide la società in due parti, e che dunque consente a chiunque chiami i militanti a manifestare contro il governo di fare il pieno della piazza. Ma c’è anche una considerazione aggiuntiva: le manifestazioni extraparlamentari potrebbero essere percepite come qualcosa che compensa la difficoltà o l’incapacità di fare politica quando si è minoranza nel contesto del sistema maggioritario. Questa valutazione non riguarda tanto la Lega, la cui azione è orientata a trasferire la mobilitazione pubblica all’interno di istituzioni «altre» rispetto a quelle repubblicane. Riguarda invece il Polo al completo, che sta ottenendo successi vistosi sul terreno della protesta proprio nello stesso momento in cui la sua strategia pseudoaventiniana in Parlamento è apparsa ai limiti dell’autolesionismo. Umberto Bossi aveva bisogno di farsi vedere, di mostrare qualche muscolo, di lanciare qualche altro slogan e riguadagnare il centro dell’attenzione dopo il lungo silenzio seguito al fallimento della marcia sul Po del 15 settembre. E c’è riuscito, perché non c’è dubbio che fa una certa impressione sentire decine di migliaia di persone che scandiscono la parola secessione, così come fa ancora un certo effetto ascoltare che verranno indette le elezioni del Nord e si farà il referendum separatista. Ma tutto questo ha senso, se ce l’ha, soltanto in una prospettiva apocalittica. Le parole d’ordine della Lega diventerebbero d’attualità soltanto nel caso di drammatico fallimento delle politiche di riaggiustamento, e quindi di catastrofica marginalizzazione del nostro paese rispetto all’Europa. In ogni altro scenario la strategia separatista di Bossi serve soltanto a tenere unito il nucleo fondamentalista della Lega, a impedire la dispersione dei militanti, e al massimo a proporre il Carroccio come terzo incomodo a ogni elezione raccogliendo i voti di chi è scontento del Polo e dell’Ulivo. La situazione è considerevolmente diversa per i partiti del Polo. I quali si erano certamente galvanizzati in seguito alla manifestazione di massa in San Giovanni, ma poiché avevano bisogno di incamerare subito un successo politico conseguente dall’iniziativa antitasse, hanno operato la forzatura del ritiro dei parlamentari da Montecitorio. Anziché perseguire un compromesso che sarebbe stato accolto da tutti come una vittoria, hanno deciso di inasprire lo scontro. Dopo di che sono di nuovo scesi in piazza e hanno occupato i teatri, annunciando che anche al Senato il Polo si asterrà dalla partecipazione ai lavori della Finanziaria. Per non avere nulla a che fare con una Finanziaria «rovinosa» (Berlusconi), «ideologica», espressione delle «utopie» che stanno dando luogo a una «deriva comunista» (Fini). Già, ma qualcuno dovrebbe poi occuparsi di riportare la protesta dentro la politica, e nella sua sede naturale, il Parlamento. Anche perché finora, con l’aventinismo, il Polo è riuscito a produrre solo due risultati. Il primo è che il governo ha potuto approvare la Finanziaria alla Camera in via molto agevolata, e questo non può essere giudicato un grande successo. Il secondo risultato invece è che il Polo sta riuscendo a mobilitare il suo zoccolo più duro, riesce a esibire in pubblico folle di militanti e simpatizzanti tutti uniti da un disprezzo teologico nei confronti di Prodi e del «cattocomunismo». I raduni sono spesso esaltanti. Tuttavia è piuttosto dubbio che la radicalizzazione del Polo rappresenti una linea politicamente vincente. Fino a prova contraria, l’elettorato di centrodestra è fatto in larga parte di moderati. Trasformare Forza Italia e gli altri partiti in plotoni di estremisti, in falangi di «arrabbiati» è vantaggioso per la visibilità delle manifestazioni, ma non è detto che lo sia per le sorti politiche generali del Polo. I leader politici, specialmente quelli non abituati alle mobilitazioni di massa, sono quasi sempre propensi ad attribuire alla piazza un peso che nella società in generale è assai minore. Il rischio per il Polo è quindi di riuscire a mettere insieme un’ampia schiera di irriducibili, ma di perdere i contatti con la complessità dell’opinione pubblica. Se fosse così, la faccia feroce rispetto alle caute aperture di Prodi, la continuazione dell’aventinismo, il rilancio di un’opposizione indiscriminata e praticata con tutti i mezzi potrebbero rivelarsi strumenti utili non tanto per guadagnare il consenso dei cittadini, bensì per rafforzare l’identità dei militanti. Per certi aspetti, dentro il Polo potrebbe verificarsi una specie di sindrome leghista. Nel senso che il centrodestra potrebbe trasformarsi in qualcosa di settario, in un’opposizione dogmatica, in uno strato secessionista rispetto alle forme politiche riconosciute. Solo che la Lega ha sempre la stella polare della secessione, mentre il Polo ha al massimo quella della caduta del governo. E se il governo non cade, come non cade, la straordinaria mobilitazione del centrodestra assomiglia sempre più vistosamente a un trionfo sì, ma a un trionfo dell’impolitico.

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